Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

mercoledì 24 ottobre 2012

LA PARTE DI GALILEO


Testo pubblicato sul quotidiano "Il Centro" il 31 ottobre 2012

I membri della Commissione Grandi Rischi sono stati pesantemente condannati da Marco Billi, un giudice giovane e coraggioso. Ora la comunità scientifica internazionale, insieme alla stampa di tutto il mondo, grida di un processo medievale in una città medievale, paragonando questa condanna a quella che fu inferta a Galileo. 
   Non solo penso che quegli esperti non possono essere paragonati a Galileo, ma sono convinto che se Galileo fosse stato oggi all’Aquila sarebbe stato dalla parte dell’accusa.
  I condannati non possono essere paragonati a Galileo perché, al contrario dello scienziato pisano, questi esperti fanno parte dell’establishment dei sapienti del loro tempo, il nostro tempo. 
   Poi, Galileo sarebbe stato dalla parte dell’accusa perché durante questo processo è stata la difesa a sostenere una visione medievale dei disastri, attribuendoli esplicitamente alla sola fatalità, quando l’analisi contemporanea del rischio si basa su una visione dei disastri in cui caso e causa si combinano, in cui alla fatalità naturale si aggiungono le azioni umane. 
   Galileo avrebbe compreso che i disastri si misurano con formule combinatorie strutturalmente analoghe a quelle da egli usate; formule in cui l’agente di impatto fisico (come un terremoto) va correlato ai fattori di vulnerabilità (come degli edifici che non reggono l’impatto) e ai fattori di esposizione (come delle rassicurazioni disastrose che inducono le persone a restare dentro gli edifici nonostante una serie di segni precursori). Oggi Galileo avrebbe compreso che nel terzo fattore di quella combinatoria sta tutta la colpa dei membri di quella Commissione; che è quel fattore la condizione che ha concausato le morti di molte persone (e che molte altre, ingannate da quelle dichiarazioni, si sono salvate per puro caso...sarebbe bastato qualche secondo in più di terremoto per far crollare ciò che è rimasto sul ciglio della morte).
   Galileo oggi sarebbe stato dalla parte dell’accusa anche perché la reazione di arroccamento delle istituzioni scientifiche, che alzano gli scudi a partire dalla falsa premessa secondo cui quelle persone sarebbero state condannate per non aver previsto il terremoto, è una risposta tipica del dogmatismo religioso; un riflesso molto medievale, lontano dalla consapevolezza che la scienza è fatta di un percorso di superamento progressivo di errori e approssimazioni. Galileo avrebbe compreso che quelli che hanno bisogno di nascondere gli errori sono i maghi, che al contrario gli scienziati gli errori li evidenziano; e l’errore è stato di aver previsto che non ci sarebbe stato il terremoto che poi è arrivato, rassicurando le persone con esiti disastrosi; e questo è il motivo della condanna.
   Di questa reazione della comunità scientifica internazionale non c’è troppo da stupirsi, essa rivela un atteggiamento autopoietico che, dalle considerazioni di Thomas Kuhn in poi, è ben noto ai filosofi e agli storici della scienza, ma meno agli esperti che a vario titolo sono chiamati o si fanno chiamare “scienziati”. Una simile alzata di scudi rivela che questa comunità si comporta come tutte le comunità, se si sente attaccata si difende in base a una pulsione tribale; una reazione basata su un istinto di conservazione che non sente troppe ragioni oltre la difesa del proprio confine. Come successe quella volta, circa mezzo millennio fa, quel confine è stato spezzato; perciò questa sentenza è rivoluzionaria, perciò Galileo stavolta sarebbe stato dalla parte dell’accusa. L’accusa stavolta ha incarnato la parte contro l’egemonia di un ordine costituito. La parte di Galileo.


(Ugualmente Galileo non sarebbe stato dalla parte di uno pseudoscienziato aquilano che oggi canta pericolosamente vittoria rischiando di degradare la sentenza. Probabilmente quel giorno all’Aquila la Commissione Grandi Rischi al fine di delegittimare certe fallaci teorie locali ha finito con il proferire altrettante fallaci teorie di segno opposto alla popolazione aquilana; teorie che però hanno avuto conseguenze letali. Questo perché, quasi sempre, non basta semplicemente essere contro gli ordini costituiti per essere automaticamente dalla parte giusta, la parte di Galileo).



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Lo storico risultato del processo alla Commissione Grandi Rischi si deve anche all'impegno e alla capacità di altri due giovani coraggiosi: i PM Fabio Picuti e Roberta D'Avolio. Sono fiero di aver partecipato nel mio piccolo a quest'impresa, attraverso la consulenza tecnica che i due mi hanno affidato. A loro va tutta la mia stima e la mia riconoscenza.


mercoledì 3 ottobre 2012

L'AQUILA DIVENTERA' UNA CITTA' UNIVERSITARIA? 23-03-2011


In questi giorni si parla del ruolo dell'Università nella città. Inserisco nel blog il testo di un intervento che ho tenuto due volte: il 23 marzo 2011all'assemblea cittadina di piazza Duomo (nell'incontro-dibattito "L'Università della città: informazioni, problemi, idee per una città universitaria")  e all'UDU summer fest del 20 luglio 2011. Forse è il caso di sottolineare che entrambi gli incontri hanno visto una bassa, direi bassissima, partecipazione della cittadinanza, e sono stati totalmente disertati dalle  istituzioni. Si tratta di contenuti che ho espresso varie volte anche in assemblee e situazioni accademiche e in special modo, da subito dopo il terremoto, nell'ambito della Commissione di Ateneo per la Residenzialità Studentesca.


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L'Aquila non è mai stata una città universitaria, ha semplicemente fondato per una ventina d'anni la sua economia sull'Università. Per questo dire "L'Aquila città universitaria" significa pretendere di mimetizzare una relazione essenzialmente predatoria nei panni di una relazione simbiotica. 



DAL TELEFONO, AL LIBRO, ALLA CAZZUOLA
Su un punto occorre essere chiari, perché non serve continuare ad ingannarsi: oggi L’Aquila del dopo-terremoto non ha più bisogno dell’Università per foraggiare l’economia della città. L’Università fu concretamente utile per le casse aquilane a partire dalla fine degli anni ’80, con la lenta ma inesorabile crisi del comparto industriale, che localmente era prima di tutto elettronica. Una recessione culminata con il tramonto dell’Italtel, lo stabilimento che era per la città quello che per decenni è stata la Fiat per Torino: lavoro di massa. Nonostante questo cataclisma L’Aquila continuò a garantire un buon tenore di vita ai suoi abitanti in quanto – oltre al blasone dell’amministrazione politica di un vasto comune, di una vasta provincia e della Regione – l’Università si rivelò come un’alternativa in grado di puntellare la catastrofe lavorativa scatenata dalla crisi del comparto industriale. Così, mentre diminuivano i posti di lavoro in fabbrica aumentavano gli scritti ai corsi di laurea, nascevano nuove Facoltà; e, a cavallo del millennio, l’Ateneo aquilano rilevò dalla declinante industria il volano economico della città. Volendo schematizzare si può dire che in pochi anni – e senza che la popolazione ne acquisisse piena consapevolezza – si verificò una vera e propria rivoluzione nel modo di produzione della città: si passò dalle linee di produzione dei circuiti elettronici per la telefonia alla produzione di ricerca, conoscenza, formazione; e quei 27000 iscritti a fronte di una città di 60000 abitanti effettivi hanno garantito una cospicua linfa economica, fatta di affitti, spese di vitto, divertimenti, un flusso continuo capace di generare un indotto enorme per una piccola città, che può essere tradotto in un termine: benessere.
   Dopo questo silenzioso mutamento epocale dal “telefono” al “libro”, oggi si pongono con enorme forza – come conseguenza del sisma che ha danneggiato enormemente la città – le condizioni per un passaggio dal “libro” alla “cazzuola”. Infatti, il terremoto del 6 aprile 2009 mentre ha privato l’Università delle sue infrastrutture produttive (le sedi delle Facoltà, gli appartamenti che hanno mantenuto l’agiatezza della media borghesia aquilana, le sedi della governance), ha aperto un oceano di possibilità al comparto dell’edilizia. Ed è meglio precisare che non si tratta di un’opinione, un punto di vista, ma di un dato di fatto. A due anni dall’evento, nonostante un regime di forti pressioni commissariali, le imprese aquilane sono riuscite ad accaparrarsi oltre l’80% dell’affare ricostruzione. Questo significa che, per una trentina d’anni, la città camperà di mattoni, di gru, di ponteggi, cantieri. Questo significa che il terremoto ha fatto tanto danno all’Università (privandola del patrimonio edilizio su cui poggiava tale sistema economico) quanto ha portato beneficio all’edilizia (generando una necessità d’intervento e una possibilità di acquisizione di fondi).
  Nella città da ricostruire l’Università non è più una necessità, le risorse economiche per sostenere la città verranno dai fondi per la ricostruzione. Così, ora che a L’Aquila l’università ha perso la sua funzione originaria - latente ma primaria - di soddisfare delle necessità economiche, è il caso di ripensare la questo rapporto, per comprendere finalmente l’Università in un mutamento da necessità economica latente a possibilità culturale manifesta. Ciò potrà avvenire solo a condizione che la città, le istituzioni e i suoi abitanti, sviluppino fiducia intorno alla desiderabilità di questa istituzione, nella garanzia che essa può fornire in una rifondazione della città non basata sulla quantità di consumo di suolo, di camion, di mattoni, ma sulla qualità della vita presente nelle città-universitarie. Questo significa passare da un rapporto di predazione (Università come risorsa da cui prendere unidirezionalmente senza investire) a uno di simbiosi (commensalismo tra università e città nel produrre qualità della vita); questo significa passare da “città con università” a “città universitaria”.



IL RISCHIO DELL’INDUSTRIA DELLA RICOSTRUZIONE
  Consentire alla ricostruzione di assumere all’Aquila la funzione di modo di produzione economica rimanda a enormi pericoli al momento non visibili che vanno dal consumo di suolo alla decadenza socio-economica nel lungo periodo. Il rischio insito in un’autopoiesi della ricostruzione riguarda il rovesciamento da “cantiere-per-ricostruire-la-città” a “città-per-mantenere-un-cantiere”, in un organismo insediativo ipertrofico che fagocita il paesaggio, esponendo il sistema urbano al il rischio del crollo. Questo rischio è insito nell’eventualità che alla fine della ricostruzione non corrisponda l’uscita definitiva da una fase di passaggio emergenziale, ma l’entrata in un’emergenza occupazionale ed economica che sarà una nuova catastrofe sociale. Il rischio del miraggio della ricostruzione fine a se stessa è quello di scambiare un pericolo in una possibilità, e di consegnare la città in mano a un sistema di speculazione che si deve per forza di cose reggere su un processo di cannibalizzazione urbanistica del luogo.
  Tuttavia deve essere chiaro che una ricostruzione non è mai un mero processo di accumulo materiale di artefatti, ma necessita di una cognizione culturale che sia in grado di delineare un senso del luogo, una vocazione, un’idea di città fondata sulla definizione di un sistema di valori, di caratteristiche, che definiscano l’esserci-al-mondo locale facendo emergere una forma peculiare di desiderabilità del sociale.  Ridurre la ricostruzione alla ricostruzione edile, e farne la ragion d’essere della città significa condannare il futuro della stessa ad un’assenza di visione a lungo termine in grado di definire una vocazione del luogo fondata sulla ricerca di qualità culturale urbana. Perciò oggi L’Aquila del dopo-terremoto può adagiarsi sull’economia della ricostruzione, ma così facendo condannerà L’Aquila della dopo-ricostruzione al declino per l’assenza di un vocazione del luogo, che rischierà di scoprirsi degenerato da città storica a discarica edile.



CURARE L’UNIVERSITA’ COME VALORE
Curare l’Università come valore, ossia come istituzione desiderabile in quanto garante di una connotazione del luogo capace di tutelarne la qualità del quotidiano, il rango, il senso della socialità, vuol dire mettere la questione della città universitaria come obiettivo rilevante e prioritario per la ricostruzione del luogo. 

lunedì 21 maggio 2012

METODO DI MICROZONAZIONE DEL DANNO SOCIALE PRODOTTO DA EVENTI CATASTROFICI


Inserisco in questo spazio web una pubblicazione dove riporto la sintesi di un metodo per la predisposizione di una scala di valutazione in grado di dare conto della varietà del danno che, nelle aree colpite da calamità naturali, si manifesta a livello di ciascun nucleo familiare (questo attraverso il censimento di un numero limitato di parametri, a partire dalle condizioni dell’abitazione e di lavoro).
La funzione di questa scala è quella di “aumentare la risoluzione della rappresentazione sociale del danno”, passando da una visione binaria (il “cratere”, dove l'area colpita viene definita in base a una generalizzazione unitaria) a una puntiforme; dove, per usare una metafora di tipo informatico, il “pixel” di base è la singola unità domestica, rappresentata da un coefficiente scalare di danno. In tal modo si può implementare un’anagrafe del danno che permetta di passare da una strategia di sostegno generalizzato (“a pioggia”) a una di sostegno selettivo (“a goccia”), modulando gli aiuti erogati rispetto ai bisogni concreti. Ciò con lo scopo di promuovere un miglioramento significativo nella gestione delle procedure di ripristino, in termini di efficacia sociale e di risparmio economico sulla modulazione degli interventi. 

Tale approccio potrebbe consentire una mediazione tra le due contrapposte modalità istituzionali d'intervento che oggi si contendono l'orizzonte della scelta politica: tra il risarcire tutto (come si è fatto finora, in base a procedure generiche,  tendenzialmente indifferenziate e indifferenzianti) e non il risarcire niente (come avverrà dopo la sconcertante proposta di abolizione degli aiuti di Stato (Disposizioni urgenti per il riordino della Protezione civile, GU 113 del 16-05-2012), nei confronti della quale è lecito ipotizzare che vi sarà una forte opposizione popolare.Il progetto fu già presentato all’indomani del sisma aquilano, ed al momento è stato inserito nella proposta di legge sulla gestione delle emergenze.



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PER UNA MICROZONAZIONE DEL DANNO SOCIALE PRODOTTO DA EVENTI CATASTROFICI

(pubblicato in: Ingegneria Sismica, n°3 2010, Pàtron Editore, Bologna) 

   Gli eventi catastrofici quali terremoti, alluvioni, tornado, tendono a causare una mortalità sempre più sporadica, ma un danno al tessuto sociale endemicamente diffuso entro ampi ranges di diversificazione quali-quantitativa, in cui si assiste a una gamma di esiti molto estesa e distribuita secondo una variabilità puntiforme che rimanda alla forma minima di aggregazione: la famiglia. In questi casi, per fare un esempio concreto, sono presenti - agli estremi - episodi di perdita totale di proprietà immobiliare e di lavoro, e, all’opposto, episodi di conservazione della proprietà immobiliare e mantenimento, o finanche notevole miglioramento, dell’attività lavorativa.
 Recepire amministrativamente tale varietà sarebbe indispensabile al fine di elaborare procedure d’intervento dettagliate, ma ad ora non esistono ancora strumenti istituzionali che siano il grado di superare la concezione della tabula rasa. Infatti le pratiche di sostegno socio-economico alle popolazioni colpite si basano ancora su dispositivi di gestione dei flussi basati su forme di erogazione indifferenziate. Questi trattamenti “a tappeto” si fondano su visioni del danno date a risoluzione minima: un bit per descrivere un confine binario tra “cratere” (l’area colpita) e mondo. Così, ad esempio, si attuano politiche di esenzione fiscale che trattano indistintamente chi a causa del disastro ha perso lavoro e casa, e chi non ha perso nulla.
  Acquisito che non tutti sono colpiti allo stesso modo, per intervenire con precisione sarebbe necessario aumentare la risoluzione dei modelli istituzionali di valutazione delle conseguenze sociali delle catastrofi; e questo percorso può essere praticato attraverso un approccio multifattoriale che ci consenta di combinare una serie di parametri per rappresentare scalarmente la diversificazione interna del danno, restituendoci una mappatura di differenze in funzione delle quali agire. In tal senso poter disporre di una scala di micro-zonazione del danno sociale basata sulla valutazione al dettaglio del danno domestico può consentire di passare da interventi indifferenziati di ripristino del luogo a interventi dettagliati; ossia modulati in base a una relazione di proporzionalità diretta tra sostegno socio-economico e danno. Questo tenendo presente che, con le disponibilità tecnologiche attuali, i luoghi colpiti da disastri potrebbero dotarsi di un’anagrafe informatizzata del danno in grado di gestire un follow-up per tutto il lungo periodo di ripristino del tessuto sociale.
 A tal fine può essere utile partire da una combinatoria di queste variabili:
livello di danno dell’abitazione; dichiarazione di proprietà o locazione dell’immobile di residenza; livello di compromissione del lavoro; differenza complessiva di reddito tra prima e dopo l’evento catastrofico; fattori di amplificazione del danno quali la composizione della famiglia (prole, anziani, disabili, monoparentalità) e la presenza di lutti nel nucleo famigliare causati dall’evento.
   Questi parametri, una volta combinati da un algoritmo, possono fornirci una graduatoria del danno che rispetta la differenza tra ogni unità domestica; e possono essere messi in relazione con una serie di coefficienti prospettici finalizzati a rendere più malleabile la scala, ossia a ricomporre un sistema di precedenze in funzione delle tipologie d’intervento che di volta in volta le istituzioni ritengono necessarie. Tali coefficienti prospettici riguardano la casa, il lavoro, la situazione domestica e la chiave politica di lettura della scala (valore quest’ultimo votabile dalle amministrazioni in base a una concezione che contempli o meno la distinzione tra danno sociale e danno economico, ad esempio differenziando o meno la proprietà dalla locazione). In questo modo, ad esempio, nel caso sia necessario prevedere un sostegno alla disoccupazione si rimodulerà la serie di precedenze incrementando il peso del coefficiente prospettico ‘lavoro’.

(il progetto in dettaglio è pubblicato su: Abruzzo Contemporaneo, Rivista di storia e scienze sociali, numero 34, 12-2009, EditPress, Teramo).



DISASTERS AND MICRO-ZONING OF THE SOCIAL DAMAGE
  Disasters such as earthquakes, floods or hurricanes tend to produce an highly differentiated damage among the inhabitants of affected places, in a variety definable starting from a household point-unit-level. Usually supportive policies do not consider in details these huge differences, but tend to treat the harm suffered by residents in a undifferentiated way.
Conversely, combining a number of variables starting from the level of damage of the house and the level of impairment at work, and some other domestic parameters, we can obtain a scale wich is able to represent a micro-zoning of the social damage. With this tool institutions could arrange a map of priorities to traslate needs and to modulate the delivery of assistance, starting  from a detailed resolution model.
  This method could avoid costs and approximations of an undifferentiated approach; allowing for a better management throughout the long term of emergency. This means ability to manage with more accuracy procedures such as the priority order in emergency housing assignment, the variety of needs for treatment of tax exemption, the financial and business istitutional support.







giovedì 12 aprile 2012

RASSICURAZIONISMO: ANTROPOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE SCIENTIFICA NEL TERREMOTO DELL’AQUILA (estratto)



Sergio Nannicola: "Il terremoto dell'Aquila 2009", Maestri di Brera per l'Unità d'Italia - Bandiere

(mostra allestita presso il Palazzo Berlaymont sede della Commissione Europea a Bruxelles, 1-20 dicembre 2011).

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Riporto gli ultimi tre capitoli della consulenza tecnica che ho redatto, in qualità di antropologo culturale, per la Procura della Repubblica nell'ambito del processo alla Commissione Nazionale per la Prevenzione e la Previsione dei Grandi Rischi, i cui membri sono accusati di omicidio colposo plurimo e lesioni (l
a Commissione è accusata di aver rassicurato la popolazione aquilana circa la natura di una sequenza sismica in atto da mesi nel sottosuolo della città, che sfociò nel terremoto distruttivo del 6 aprile 2009). La relazione (respinta per un cavillo procedurale il 25 gennaio 2012) è stata discussa e depositata in udienza l'11 aprile 2012. Il testo (che, essendo composto da 119 pagine sarebbe inopportuno riportare per intero) riprende il tema che ho già trattato in questo post: http://lacittanascosta.blogspot.it/2010/06/il-valore-dei-termini-mancato-allarme-o.html.


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CONOSCENZE POPOLARI LOCALI: LA CULTURA DEL TERREMOTO

[…] La “cultura del terremoto” segue la storia della città come un’ombra, come un sapere sotterraneo, come una reminiscenza oscena, di cui nei momenti normali ci si deve quasi vergognare, nella preoccupazione di intrattenersi con un’inopportuna paranoia: si tratta di una reliquia particolare che non può essere esposta sempre, perché il bisogno di normalità determina l’istinto umano di rimozione delle catastrofi, dove il terremoto nella sua immensità svela brutalmente «lo scandalo del male»[1], sicché «non ci sono catastrofi che si dimenticano più velocemente del terremoto, quando la ricostruzione si compie»[2]. Perciò ci si trova di fronte a un insolito paradosso dell’ecologia umana che si manifesta in modo peculiare, quasi unico all’Aquila, in cui il terrore di un evento altamente improbabile, ma che ha periodicamente devastato la città, genera la tensione tra due strategie adattive inconciliabili: sapere quando è il momento di avere paura, perché senza la comprensione del terrore si muore, ma dimenticare quella paura nella vita di tutti i giorni, perché non si può vivere sempre nel terrore, a meno di non voler sopportare un’angoscia che annichilirebbe l’esistenza. Tutto ciò ha una spiegazione semplice nella sua assurdità: L’Aquila è una piccola città, piena di bellezze e che offre a chi la abita la possibilità di una vita serena e confortevole, ma ogni tanto impazzisce facendo scempio dei suoi abitanti, che all’improvviso muoiono straziati da ciò che – nella cultura occidentale votata alla stanzialità – è normalmente il simbolo cardinale della stabilità, della sicurezza, il centro del mondo, il luogo dell’anima: la casa.
La città è convissuta dalla sua fondazione con questa rara ma periodica e totale follia, che in 700 anni di storia ha decimato la sua popolazione per diverse volte, causando complessivamente oltre 7000 morti. In proposito va rilevato che in passato abbiamo il primo segno di attuazione di misure precauzionali in seguito al perdurare di una sequenza sismica, e in memoria della prima ecatombe portata dal sisma del 1348 che uccise quasi mille persone, cioè il 10% della popolazione dell’epoca. Infatti, dal cronista medievale Francesco di Angeluccio di Bazzano, si è a conoscenza che nel 1462, dopo una sequenza sismica iniziata mesi prima che già aveva prodotto un evento di picco, benché ci sia stato un secondo sisma violentissimo, «la progressione delle scosse fu tale da consentire un massiccio sfollamento e l’adozione di misure di prudenza che limitarono le vittime ad un numero di gran lunga inferiore a quello che si registrerà nel terremoto del 1703». In occasione del sisma del 1462 il cardinale Agnifili, allarmato dall’incedere delle scosse, ordinò la chiusura delle chiese e fece erigere gli altari nelle piazze, come pure «furono erette baracche in legno nella piazza del Mercato, nel campo di Fossa, e nei numerosi spazi liberi entro le mura»[3]. Se in questo caso «il popolo ebbe “gran paura per lo peggio che n’avesse a sequire”», per cui «nessuna persona, in ricordo dei terremoti passati, rimase in casa»[4], le oltre 6000 vittime provocate dal terremoto del 1703 non ebbero modo di salvarsi anche per una sottovalutazione culturale del rischio: infatti pur essendo iniziate le scosse quattro mesi prima, in quel caso non vi furono disposizioni precauzionali da parte delle autorità, né iniziative simili da parte della popolazione.
In quella circostanza la città pagò l’aver dimenticato che i suoi abitanti si salvarono attraverso la precauzione di uscire dalle case dopo le scosse di avvertimento, ma quell’ecatombe lasciò il segno producendo un subconscio collettivo capace di leggere la pericolosità della città: un codice che non trovò la forza dell’evidenza, attraverso delle concessioni chiare all’iconicità, ma restò dormiente, insieme alla terra che dopo essersi scatenata subito si placa, nascosto in simboli che vanno svelati con l’interpretazione culturale. Infatti dopo il terremoto del 1703 la città attiva una strategia del ricordo, secernendo una semiosi di avvertimento che resta celata negli interstizi del percorso di rimozione di cui ha bisogno la rinascita: la muta dei colori simbolo della città, che dal rosso e il bianco si invertirono nel verde della speranza e nel nero del lutto, l’attribuzione popolare della denominazione di “chiesa delle Anime Sante” data in ricordo delle vittime, alla chiesa di Santa Maria del Suffragio, edificata a fianco del Duomo dopo il sisma, la riduzione della durata dei festeggiamenti annuali del carnevale (il terremoto del 1703 avvenne proprio nel periodo carnevalizio). Un altro segno dell’attenzione del folklore aquilano nei confronti del terremoto è attestato dalla devozione particolare verso sant’Emidio, alla cui intercessione fu attribuita la salvezza della sua città, Ascoli Piceno, vicina all’Aquila, proprio durante il sisma del 1703; da quest’episodio iniziò la venerazione del martire come protettore dai terremoti, e L’Aquila, proclamò suo comprotettore, dedicandogli una statua dove egli è ritratto con la città in mano[5].
Più in generale, il tributo silenzioso delineato dall’insieme degli elementi che compongono questa struttura di memoria civica, tanto singolare quanto drammatica, ha configurato le basi di un subconscio collettivo che si addensa intorno al principio folklorico – quindi tanto vago formalmente quanto sostanzialmente consistente – che da secoli è tramandato oralmente, secondo il quale dopo una forte scossa è buona norma restate per qualche ora fuori dalle abitazioni. Principio che, a partire dai più anziani, praticamente tutti in città conoscevano prima del 6 aprile 2009, e che in moltissimi avevano già applicato durante la sequenza sismica.
Infatti, durante i mesi di scosse, poi degenerati nel terremoto disastroso, questa reazione collettiva è stata innescata proprio dal boato del 30 marzo, che, rispetto alle altre scosse avvertite dalla popolazione – d’intensità tra i 2 e i 3 gradi della scala Richter – presentava un’intensità del quarto grado (il che, essendo tale scala logaritmica, vuol dire che ebbe a sprigionare un’energia circa trenta volte maggiore rispetto agli eventi che lo avevano preceduto). Lo stimolo dato da quel severo ruggito della terra, ben diverso dai lievi tremolii delle scosse precedenti, attraverso il filtro dell’interpretazione precauzionale tradizionalmente sedimentata all’Aquila, attiva in gran parte della popolazione la reazione precauzionale di uscire dalle case e restare fuori per un po’. Con la terra si sveglia il subconscio collettivo. Così, com’era successo nel passato remoto e recente, dopo boati di quell’intensità, la gente aquilana aspettò delle ore prima di rientrare, nelle piazze, a guardare da fuori case e palazzi, nel terrore che stesse arrivando il terremoto, in un pomeriggio sospeso nel vuoto di paure e di fantasmi, proiettati improvvisamente dentro una dimensione parallela rispetto all’ordinario scorrere del tempo, così irreale da non poter essere facilmente descritta.
Poi, il giorno dopo, gli esperti della CGR vennero a spiegare di persona che in questo caso non ci sarebbe stato nessun terremoto catastrofico, perché scosse di quell’intensità erano da attendersi, erano normali, erano un segno positivo che questa volta il terremoto stava “scaricando”, agganciando la plausibilità di tale diagnosi alla fiducia nella scienza, oltre che all’umana reazione di rimozione della paura. E le due scosse che precedettero il disastro di qualche ora emisero lo stesso boato di quella del 30 marzo. L’Aquila è una città che uccide, e il subconscio collettivo che è fermentato sulle macerie dei secoli passati prova a mantenere il filo della memoria in un letargo che aiuta a tenere a distanza quell’orrore dall’impegno di distensione che richiede la vita quotidiana; lo fa attraverso un sussurro popolare che percorre la storia del luogo, e che quella notte si è trovato in contraddizione con delle rassicurazioni disastrose promanate dall’autorità della scienza di Stato.
Prima di allora in questi casi, ciò che appropriatamente si può definire come l’istinto umano – il gesto culturale elementare della ricerca di significato – sapeva reagire al fulmineo emergere dell’inatteso attraverso la ripresa del filo della memoria popolare, trovando un’indicazione capace di rispondere all’angosciante domanda sul “che fare” dal momento in cui i vecchi compivano il gesto primordiale d’inculturazione che nutre la tradizione: ricordavano. Ricordavano, e ripetevano ai figli e ai nipoti quello che si erano sentiti prescrivere dai loro vecchi, quando erano bambini: aspettare prima di rientrare nelle abitazioni, restare fuori perché anticamente successe che quei segni precedettero una violenza apocalittica, l’orrore totale di migliaia di corpi straziati dalle pietre. Una ricetta arcaica, per la rara ricorrenza della festa orrenda, in cui, come in un rito d’inversione, come in un carnevale assurdo, che ogni tanto il terremoto mette in scena all’Aquila, mettendo sottosopra un principio base dell’esistenza umana: l’immobilità della terra. Una ricetta che, come tutti gli usi popolari, si mantiene nella labilità dei codici orali, incerta, vera, indispensabile, vitale. Invece il 6 aprile 2009 quel codice non passò nel filtro dei repertori culturali di molti aquilani, poiché fu reso inascoltabile dal rumore di assurde divinazioni veicolate entro il potere seduttivo delle sembianze scientifiche, e amplificate da un tamtam di grande diffusione mediatica che da una settimana aveva invaso l’etere locale. Questo conflitto – l’attrito generato dal dislivello fra tradizione e modernità, tra inculturazione e acculturazione – è un universale culturale che accompagna l’umanità dalla nascita delle culture complesse, ma forse raramente tale tensione costitutiva dell’ultimo periodo evolutivo della nostra specie ha assunto dei connotati così surreali.




PERCEZIONE CULTURALE DEL RISCHIO E VULNERABILITA’ SOCIALE

Per definire la distribuzione delle responsabilità delle conseguenze di un disastro il primo punto è comprendere pienamente cos’è un disastro nella sua essenza. Fare ciò significa prima di tutto andare oltre gli stereotipi pseudoscientifici insiti nella rappresentazione degli eventi calamitosi in base a semplificazioni tecnocentriche orientate alla descrizione delle cause del danno solo e unicamente in termini di agenti fisici. Questo superamento è necessario per pervenire a una visione olistica degli eventi catastrofici, in grado mettere in relazione il danno alla combinazione di fattori fisici, sociali e culturali, e che può essere espressa in questa formula:
D=IxV
Dove:
D= disastro inteso come danno derivante dalla «disgregazione sociale che segue l’impatto di un agente distruttivo su una comunità umana»;
I= agente d’impatto fisico (ad esempio la magnitudo di un sisma);
V=variabili antropiche che esprimono il livello di vulnerabilità della comunità[6].
Se questa combinatoria chiarisce che il livello di vulnerabilità di un luogo può attutire o amplificare gli effetti di una calamità naturale o artificiale, va specificato che la variabile (V) – la vulnerabilità di un luogo – riguarda un insieme di aspetti sociali che rimandano ad ambiti tecnici, politici, economici e culturali, intesi come fattori che tendono ad amplificare o a diminuire il rischio, a cui va aggiunto il fattore antropologico della percezione del rischio, e in tal senso si ha:
V=Ra-Rm±Rp
Dove:
V=variabili antropiche che esprimono il livello di vulnerabilità della comunità;
Ra=funzione di amplificazione del rischio;
Rm=funzione mitigatrice del rischio;
Rp=funzione di percezione del rischio[7].
Questa formula - evidenziando la combinazione di elementi naturali, sociali e culturali che concorrono a produrre una situazione disastrosa - chiarisce un punto fondamentale, che nel caso qui in esame può essere inteso come il fulcro in base a cui stabilire le responsabilità della CGR: la percezione culturale del rischio può incrementare o diminuire la vulnerabilità sociale di un luogo. Questo vuol dire che, nella definizione delle responsabilità dei fattori umani che fanno di un evento fisico un disastro, una rassicurazione immotivata ha lo stesso peso di un edificio costruito a spregio delle normative di sicurezza, dove tale peso risulta come un fattore di aumento dell’esposizione al pericolo, in quanto amplifica gli esiti disastrosi di un evento calamitoso.
Le formule appena citate ci aiutano portare fuori dall’opinabilità la considerazione che all’Aquila la gente è morta per la combinazione di tre concause:
- perché un terremoto di magnitudo momento 6.3 ha colpito la città con precisione chirurgica (con l’epicentro sulla città e l’ipocentro a soli 8 km di profondità), sottoponendola a uno scuotimento molto violento;
- perché alcune case non erano sufficientemente resistenti per reggere alle sollecitazioni ricevute;
- perché molte persone hanno creduto alle infondate rassicurazioni date dalla CGR sulla presunta natura innocua della sequenza sismica in atto in quei giorni; rassicurazioni che hanno diminuito la percezione del rischio incrementando così la vulnerabilità del luogo.
È proprio questa capacità di aver incrementato la vulnerabilità del luogo a fare della diagnosi formulata dalla CGR una rassicurazione disastrosa, ossia un agente distruttivo[8].




UNA RASSICURAZIONE DISASTROSA NON E’ UN MANCATO ALLARME[9]

Da tempo la recriminazione degli esiti sociali negativi portati dalla diagnosi della CGR tende ad essere rappresentata attraverso l’espressione ‘mancato allarme’. Di mancato allarme si è parlato e si seguita a parlare in ambito cittadino, in ambito giuridico e mediatico[10]. Constatato ciò è indispensabile mettere in evidenza l’inappropriatezza e la netta fuorvianza dell’uso di questa formula in riferimento a quanto è successo all’Aquila nel periodo di incubazione della catastrofe, ovvero in merito alla segnalazione immotivata di normalità comunicata dalla CGR. Infatti la definizione di “mancato allarme” è nel nostro caso errata in quanto produce un significato fuorviante rispetto al referente. ‘Mancato allarme’ significa non (pre)dire che ci sarà un evento nefasto, e questo è totalmente diverso dal (pre)dire che non ci sarà un evento nefasto. Tutto si gioca sintatticamente a partire dalla posizione della negazione: nel primo caso è in gioco un’assenza di capacità (o di volontà), nel secondo caso è in gioco la presenza di un errore (o di un inganno).
Il concetto di ‘mancato allarme’ rimanda al termine ‘allarmismo’; e l’idea che la mancanza della CGR possa ricadere nel primo concetto suggerisce subito implicitamente una pretesa, e quindi un’accusa eccessiva, perché non si può esigere che una commissione scientifica si metta a lanciare allarmi più o meno immotivati in ogni occasione di possibile pericolo, rischiando di fomentare psicosi collettive. Il punto è che non si tratta affatto di questo. Va considerato in merito con attenzione che nel linguaggio corrente non disponiamo di un contrario puro per il termine ‘allarmismo’, lemma composto dal sostantivo ‘allarme’ (che significa “segnalazione di emergenza”) e dal suffisso “-ismo” (che significa in questo caso “dottrinarietà”, fissazione immotivata spesso legata ad atteggiamenti collettivi), che insieme delineano un significato di “tendenza a preoccuparsi e ad ingenerare timore verso gli altri in assenza di validi motivi”. E’ proprio il suffisso ‘-ismo’ a conferire al termine la connotazione dell’immotivatezza alla segnalazione di emergenza. Viceversa una parola che significa “segnalazione immotivata di normalità” non esiste: termini come ‘tranquillizzazione’ o ‘rassicurazione’ non comportano il connotato dell’immotivatezza.
Il termine ‘rassicurazionismo’ risulta in tal senso l’unico appropriato, ma ad oggi non è in uso, e senza un po’ d’abitudine i termini, specie se compositi, tendono ad avere un senso nebuloso. Le difficoltà nella comprensione di quanto è avvenuto all’Aquila, del ruolo della CGR nella fase di incubazione della catastrofe, l’impenetrabilità, l’ermeticità di questa situazione, si rivela proprio ipso-facto a partire dal suo essere indefinibile attraverso una semplice attribuzione terminologica di senso. Mancando un termine si cade da subito nell’equivoco attraverso l’uso di espressioni inappropriate, quali sono in questo caso quelle di ‘allarmismo’ o ‘mancato allarme’. Perciò va compreso che l’inesistenza dei termini o si supera con un termine nuovo, o si evita con la costruzione di termini composti, o si va incontro a uno spiacevole inconveniente: il non riuscire a definire un fenomeno aumenta il rischio di subirne le conseguenze, mentre suggellare gli enunciati che significano un fenomeno in un’unica parola rende lo stesso più recepibile. ‘Rassicurazionismo’ è l’unica parola che può descrivere compiutamente l’inedita performance comunicativa attuata per mesi dalle istituzioni della Protezione Civile e dell’INGV e che ha avuto come apice persuasivo la riunione della CGR, dove, in un cerimoniale di ostentazione di autorità, si è affermata la rassicurazione disastrosa secondo la quale si era di fronte a uno ‘sciame sismico’ che esauriva l’evento dilazionandolo bonariamente in un graduale “scarico positivo di energia”.
Un mancato allarme, per portare qualche esempio, è un incrocio senza semaforo (assenza d’informazione in presenza di rischio), una rassicurazione disastrosa è un semaforo che segna verde quando invece dovrebbe segnare rosso (informazione sbagliata in presenza di rischio); viceversa una rassicurazione fondata è un semaforo che segna verde appropriatamente (informazione esatta in assenza di rischio); mentre un procurato allarme è un semaforo che segna rosso senza che vi sia l’incrocio (informazione sbagliata in assenza di rischio). Similmente, un mancato allarme è l’assenza di un cartello che avverte “acqua non potabile” su una fontana avvelenata; una rassicurazione disastrosa è un cartello che recita “acqua potabile” su una fontana avvelenata; una rassicurazione fondata è una scritta “acqua potabile” su una fontana buona; un procurato allarme è una dicitura di “acqua non potabile” su una fontana buona. In sintesi: si ha una rassicurazione disastrosa nel momento in cui su una situazione pericolosa viene posto un segnale rassicurante.
Il punto è che semafori, cartelli o altri segni che siano, per chi riconosce quei codici la definizione di non pericolosità diventa prescrizione per l’azione. Tra “mancato allarme” e “rassicurazione disastrosa” va ancora sottolineata la differenza cardinale: l’assenza d’informazione va distinta dall’informazione errata. Una rassicurazione disastrosa implica un mancato allarme, ma lo sopravanza. Perciò chiariamo questo punto: il mancato allarme ovviamente c’è stato (in quanto non c’è stato un segnale di pericolo), ma c’è stato di peggio, c’è stata, appunto, oltre a una mancata segnalazione di possibilità di pericolo, una segnalazione errata di non pericolo, che si è risolta in una rassicurazione disastrosa dal momento in cui la GCR ha informato - in modo superficiale (analiticamente), infondato (scientificamente), fuorviante (rispetto alla possibilità di pericolo) e letale (rispetto a quanto è successo) - la popolazione del fatto che in quelle circostanze non vi sarebbe stata una catastrofe. Non dire “state attenti” è opposto dall’affermare “state tranquilli”, che non solo implica il non dire “state attenti” (il non prescrivere condotte precauzionali), ma lo esorbita (prescrivendo condotte avventate).
Certo, gia dallo studio di Grandori e Gaugenti prima menzionato[11] si evince che, se non fossero stati omessi dei dati scientificamente ineludibili dalla formulazione della diagnosi di rischio, sarebbe stato difficile pervenire alle conclusioni rassicuranti che abbiamo analizzato. In quel caso si sarebbe dovuta informare la popolazione a partire dalle uniche conclusioni metodologicamente ammissibili a partire da quelle premesse: nell’area a maggior rischio sismico d’Italia, caratterizzata da un’evidente vulnerabilità del tessuto abitativo, è in corso una sequenza sismica che amplificava di 100 volte la possibilità di un evento catastrofico. Quel segnale di allerta non è stato dato quando la scienza indicava tutte le ragioni per farlo; ma il problema non è affatto questo, e occorre ribadirlo chiaramente. È successo molto peggio: alla gente è stato autorevolmente spiegato e paternalisticamente ripetuto che poteva rimanere nelle proprie abitazioni anche nel caso di scosse allarmanti, perché queste non indicavano il preludio a un disastro, ma erano segno che l’energia stava scaricandosi.
Come dicevamo, la vulnerabilità a eventi come i terremoti dipende certo da fattori quali la qualità delle costruzioni, ma anche dalle modalità con cui culturalmente si determina la percezione del rischio. Si muore se avviene un terremoto tale da far crollare una casa insicura e se, in quella casa, si pensa di essere al sicuro perché gli scienziati hanno garantito che non ci sarà il terremoto. Perciò quelle rassicurazioni disastrose hanno pesato come una casa costruita male nel concausare la strage del 6 aprile 2009. Se si fosse costruito bene non ci sarebbero stati morti? Probabile, ma probabilmente non ci sarebbero stati morti neanche se non si fossero abbondantemente fornite alla popolazione delle rassicurazioni infondate. Il terremoto è stato una condizione necessaria di morte, ma non sufficiente: in molti casi per fare uscire la gente dalle abitazioni sarebbe stato sufficiente non solo dire “attenzione ci potrebbe essere una scossa”, ma anche semplicemente non dire nulla: in quel modo non si sarebbe minata quella sorta d’istintualità culturale da secoli sedimentata in loco che, alimentando il dubbio, richiama alla consuetudine precauzionale tradizionale di uscire da casa dopo scosse forti e restarvi per diverse ore. Invece il dubbio, il sale della scienza, pare aver avuto poca possibilità di asilo in quell’altamente scientifica commissione che ha rassicurato la popolazione con la diagnosi disastrosa secondo la quale quelle scosse erano il segnale positivo di un rilascio di energia.
Va ribadito che molti altri abitanti – tanto quelli che hanno prestato fede certa alle rassicurazioni della CGR quanto quelli ai quali tali rassicurazioni sono comunque bastate per dubitare delle loro paure – si sono salvati solo perché il terremoto non ha fatto crollare le loro abitazioni, molte delle quali si sono rivelate sollecitate al limite dello schianto, gravemente danneggiate, fermate sul ciglio del disastro “per un soffio”: sarebbe bastato un minimo di intensità in più o qualche altro secondo per farle diventare una tomba; per passare da trecento a tremila o trentamila vittime. Si è parlato molto della vulnerabilità degli edifici, dell’idea della “città di cartone”, ma non si è detto che la quasi totalità delle abitazioni, in un modo o nell’altro, “ha retto” a uno scuotimento che, considerando la posizione epicentrale della città e la bassa profondità del sisma è stato intensissimo. Circa la metà degli aquilani sono sopravvissuti perché – fortunatamente – le loro abitazioni sono riuscite a superare quel mezzo minuto di terremoto senza crollare. Novantanove case su cento sono riuscite a salvare le persone che vi erano rimaste imprudentemente dentro a causa del condizionamento culturale proveniente da informazioni infondatamente rassicuranti.
Il potenziale disastroso della diagnosi della CGR risulta evidente dal momento in cui si mette in risalto che essa ha generato uno schema interpretativo il quale – incardinato su un principio vacuo di rassicurazione quasi sempre enunciato in termini deterministici – ha attutito la percezione culturale del rischio, amplificando così la vulnerabilità del luogo, e configurandosi quindi come un «nemico invisibile». Se è vero che «i pericoli più pericolosi sono quelli che non riconosciamo come pericoli, i rischi gravi che non sappiamo di correre»[12], la forza distruttrice della diagnosi della CGR sta nell’aver definito – in base a una valutazione infondata – il significato di un segnale: secondo quegli esperti autorevoli la sequenza sismica in atto non indicava la minaccia sempre più forte di una catastrofe imminente, ma, al contrario, essa realizzava la liberazione da un pericolo che, appunto, si è fatto funestamente credere che si stesse “scaricando”. Questo in definitiva, nel caso del terremoto dell’Aquila, significa ‘rassicurazionismo’.


[1] Tagliapietra, 2004: XXVIII.
[2] Nimis, 2009: 9.
[3] Cfr.: Clementi-Piroddi, 1986: 48.
[4] Cfr.: Berardi, 2008: 78.
[5] Tra l’altro, a testimonianza del sentimento d’inquietudine che percorreva il senso comune aquilano, lo stesso giorno della riunione della CGR, l’Arcivescovo dell’Aquila decise di celebrare una messa solenne con lo scopo di invocare la protezione di sant’Emidio. La funzione si tenne nella chiesa delle Anime Sante, il luogo simbolo della strage del 1703, dove la statua del santo per l’occasione fu trasferita, e lì rimase fino al 6 aprile, finendo seppellita dal crollo parziale della chiesa.
[6] Cfr.: Ligi 2009: 16-18.
[7] Cfr.: Alexander, 2000: 14; Ligi, 2009: 104.
[8] La disastrosità va intesa in tal senso proprio come la proprietà di un agente distruttivo, fisico, sociale o culturale che sia (cfr.: Ligi, 2009: 73).
[9] Riprendo qui il tema che ho già trattato in un testo pubblicato sul mediaweb www.abruzzo24ore.tv (“mancato allarme o rassicurazione disastrosa?”, 15 giugno 2010) e in due convegni (“Cittadini insicurezza”, Associazione Italiana Giovani Avvocati, L’Aquila, 18 febbraio 2011; “Memoria storica e attualità nello studio della sismicità regionale ed interregionale”, INGV, Protezione Civile, Gorizia, 27 marzo 2011).
[10] Ad esempio, anche nei giorni in cui concludo questa scrittura, il 26 novembre 2011, noto che il telegiornale regionale di Rai3 racconta una delle udienze del processo alla CGR, che sono iniziate dal 20 settembre, parlando ancora di “mancato allarme”.
[11] Cito questo studio in un capitolo della consulenza non riportato in ques’estratto: riguardo alle carenze metodologiche della diagnosi espressa dalla CGR sono stati molto chiari Giuseppe Grandori ed Elisa Gaugenti – due autorità nel campo dell’ingegneria sismica e dell’analisi del rischio sismico – che hanno dedicato alla vicenda una pubblicazione. Secondo gli studiosi per prima cosa l’affermazione deterministica sostenuta dalla CGR che “la previsione dei terremoti non è possibile” non è scientificamente corretta. Questo poiché «le scosse premonitrici (come ad esempio quella di magnitudo 4.0 del 30-03-09) sono considerate dalla comunità scientifica internazionale come un reale precursore, sia pure con alta probabilità di falso allarme». In merito una serie di ricerche hanno dimostrato che in questi casi il rischio diventa «100 volte più grande del rischio sismico di base della zona». Pertanto, per quello che riguarda la comunicazione istituzionale del rischio sociale, una sequenza sismica dovrebbe essere trattata dichiarando la probabilità di occorrenza di un sisma catastrofico, fornendo una stima calcolata in base alle conoscenze tecniche a disposizione. Non solo: tale dato va incrociato con la sismicità del luogo e le previsioni a lungo termine; e sull’Aquila vi erano degli elementi che non potevano non indicare la necessità di comunicare uno stato di allerta, ma questi non furono presi in considerazione. Quell’amplificazione della probabilità di un sisma catastrofico determinato dalla sequenza sismica in atto si inseriva in un contesto di sismicità storica dove, proprio una ricerca dell’INGV del 1995 (che durante la commissione e nel corso dei mesi precedenti non fu mai nemmeno menzionata), informa del fatto che «la regione dell’Aquilano risulta, fra le 20 regioni considerate, quella con la maggior probabilità di un forte evento nel ventennio 1995-2015». Inoltre, poiché il sisma del giorno precedente la riunione della CGR aveva già causato alcuni danneggiamenti nonostante la modesta magnitudo, si era resa evidente la vulnerabilità del tessuto urbano; ciò avrebbe dovuto indurre già da sé a «ritenere particolarmente pericoloso un eventuale forte terremoto», e quindi a spostare la valutazione della situazione verso scenari tutt’altro che rassicuranti. Così Grandori e Gaugenti concludono osservando che «resta inspiegabile il fatto che la Commissione e i responsabili della Protezione civile, oltre a scegliere l’opzione allerta-no (scelta legittima pur se criticabile dal punto di vista metodologico), abbiano potuto assumersi la responsabilità di scoraggiare le iniziative di prevenzione che molti cittadini suggerivano o autonomamente assumevano» (cfr.: Grandori, Gaugenti, 2009).
[12] Ligi, 2009: 9.

BIBLIOGRAFIA

Alexander, D.
2000 Confronting Catastrophe, Oxford, Oxford University Press.
Berardi, M. R.
2006 “I terremoti nel periodo medievale”, in Redi, F., Breve storia dell’Aquila, Pisa,
Pacini.
Clementi, A. – Piroddi, E.
1986 L’Aquila, Roma-Bari, Laterza.
Grandori, G. – Guagenti, E.
2009 “Prevedere i terremoti: la lezione dell’Abruzzo”, in AAVV, Ingegneria Sismica,
anno XXVI, numero 3, Pàtron Editore, Bologna.
Ligi, G.
2009 Antropologia dei disastri, Roma-Bari, Laterza.
Nimis, G. P.
2009 Terre mobili. Dal Belice al Friuli dall’Umbria all’Abruzzo, Roma, Donzelli.
Tagliapietra, A.
2004 “La catastrofe e la filosofia”, in AA. VV., Sulla catastrofe: l’illuminismo e la filosofia del disastro, Milano, Bruno Mondadori.


CONSIDERAZIONE GENERALE:

C'è qui un elemento che va oltre la circostanza della vicenda aquilana: a ben vedere il rassicurazionismo pervade la nostra società. Direi che, se per il sociologo Ulrich Beck viviamo in una "società del rischio", la reazione istituzionale a tale condizione spesso si traduce in politiche rassicurazioniste. Il rassicurazionismo è il metodo dello struzzo, il modo più semplice per reagire al pericolo, anche se il meno efficace: nascondere la testa sottoterra far finta di nulla. Sull'ambiente, sul lavoro, sulla pace, sulla salute, sulla giustizia sociale, su qualsiasi necessità di sicurezza siamo quotidianamente bombardati da rassicurazioni che spesso si rivelano disastrose. Il rassicurazionismo è una strategia biopolitica implicita, nascosta nei nostri tempi; tanto applicata quanto sottaciuta.