Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

venerdì 8 aprile 2011

IDENTITA’ E IDENTITARISMO NEL DOPO TERREMOTO AQUILANO 01-03-2011

testo pubblicato su:
Progetto città, quaderni del dopo terremoto, numero 1, marzo 2011, L'Aquila, Fabiani Stampatori.

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Osservate dal punto di vista delle dinamiche identitarie, le catastrofi si rivelano come eventi che producono diffusi cedimenti dei dispositivi d’inerzia segnica e materiale della pratica sociale. È chiaro che, in questo sgretolamento dei riferimenti che nei tempi “normali” assicurano continuità e quindi riconoscibilità culturale, il bisogno d’identità è percepito come una necessità primaria, come antidoto contro l’angoscia di un rischio del non-esserci, che si manifesta non solo come crisi della presenza soggettiva, ma come rischio stesso dell’esistenza del luogo. Così, se ritessere determinati fili interrotti rivela una funzione culturale terapeutica, carezzare più o meno consapevolmente o innocentemente l’idea che tutto possa essere ricomposto entro un ordine pre-esistente, elevare a valore a-criticamente positivo un pathos meramente nostalgico, comporta un rischio di degenerazione del discorso identitario in retoriche identitariste. Se l’identità culturale di un luogo è data dall’incessante sedimentarsi dinamico e selettivo di un flusso di eventi fondativi in un serbatoio di memoria dai confini sempre variamente sfumati, l’“identitarismo” riguarda un atteggiamento di chiusura cultuale del discorso identitario rispetto ai flussi di mutamento. Nell’esasperazione identitarista il senso del sé collettivo arriva ad implodere nella contemplazione riflessiva ed enfatica di una situazione spazio-temporale idealizzata, percepita come pura e autentica in opposizione agli sconvolgimenti portati dai cambiamenti.

Probabilmente la più pervasiva espressione di retorica identitarista presente ora all’Aquila è inquadrabile nella calata – dentro i discorsi di senso comune sulla ricostruzione –del motto che recita: “com’era dov’era”. «Com’era dov’era!» pronunciano i cittadini angosciati dal vuoto del dopo sisma; «com’era dov’era!» è il deus ex machina che ripetono i politici a corto di argomentazioni votate al futuro e in cerca di facili consensi. Quest’espressione di folklore post-sismico chiama alla necessità di qualche riflessione riguardo al campo di significati ad essa ascrivibili tra conservazione, ritorno, nostalgia, rimozione, oblio. Ciò non solo perché il senso positivo di una qualsiasi generica esortazione andrebbe tradotto in base alle quantità e alle qualità delle situazioni concrete, ma anche perché è chimerico pensare che qualsiasi cosa possa tornare puramente “com’era dov’era”. Lo stesso Friuli terremotato – dal quale è stata importata, forse troppo passivamente, questa massima – a ben vedere non è affatto tornato “com’era dov’era” oltre le apparenze, anzi: una serie di paesi-presepe sono stati ricostruiti mantenendo forme tradizionali su strutture moderne, e se le piante dei centri storici sono state conservate, ne è stata totalmente stravolta la cornice paesaggistica. Tutt’intorno a quegli atomi di ricomposta nostalgia il territorio mutava radicalmente per il vento dell’industrializzazione. Lo stesso vento che portò tante risorse e restituì alla regione un ritorno ai simulacri di quei paesi senza quel paesaggio, che da agricolo divenne industriale; il tutto in ben altri tempi economici, e in un territorio che plausibilmente si ricostruì attraverso l’industrializzazione, più che industrializzarsi nella ricostruzione.

Inteso che è poco ragionevole farne una “parola maestra”, e posta quindi una necessità di traduzione critica e problematizzante rispetto alle circostanze del “qui ed ora”, ciò che andrebbe designato traducendo questo “proverbio sismico” è, nel concreto del nostro caso, solo quello che riguarda le situazioni tutelate, ossia di alto e comprovato valore storico-artistico-architettonico. Oltre questo confine si corre un rischio articolato, da un punto di vista materiale, su due livelli: uno di elemento e uno d’insieme. Il primo livello di questo rischio riguarda i tentativi, da parte di privati o di gruppi, di speculare sulla ristrutturazione di elementi insediativi di scarso valore culturale; e in tal senso nella valle aquilana abbondano ormai catapecchie puntellate, elevate all’improbabile rango di dimore storico-tradizionali, in attesa di ancora più improbabili “manne” governative. Qui non confondere l'identità con l'identitarismo significherà in concreto saper comprendere – in un discorso dove la conservazione dialoga con la funzione e non costringe a compromessi rispetto alla sicurezza – la differenza tra monumenti e catapecchie, tra antico e vecchio; e, soprattutto, tra il valore di riconoscimento culturale collettivo e la pretesa dell’interesse economico individuale (che spesso nel primo si mimetizza).

Il secondo livello materiale del rischio identitarista concerne l’incapacità di progettare, o finanche di concepire, un’eventualità di mutamento radicale complessivo in una realtà che oggi si presenta come un embrione di città diffusa; dove un’eventuale coalescenza dei frammenti attuali non potrà che significare crescita, con il rischio di uno sviluppo solo quantitativo, di declinare L’Aquila da città storica a uno di quegli aggregati che Marc Augé chiama “città generica”[1], o di trasformare il territorio in una discarica prima urbanistica e poi sociale, a partire da un dissennato uso del suolo interno a quest’urbanità tratteggiata. Il tutto è da accostare, viceversa, con il pericolo opposto di una diaspora a causa dell’incapacità di saldare le distanze attualmente presenti intorno alla città ferita; o con il timore che gran parte della città e dei paesi limitrofi resti in macerie o pericolante, per molti anni o per sempre; diventando segno di un mondo che, inviluppato in logiche di profitto e ormai troppo complesso e fragile, non è più capace di rigenerarsi, di cicatrizzare le catastrofi, nemmeno locali (a meno di svendite speculative che ora si annunciano nell’abbattimento preventivo del valore economico degli edifici).

È attraversando questa linea, oltre il rovistare di certi opportunismi politico-economici, che – dietro l’apparente innocenza di un detto – il ripiego identitarista rimanda a un rischio non più materiale ma simbolico, inquadrabile nel vano tentativo di rimozione dell’evento traumatico. Qui l’angoscia da separazione, ossia l’incombere della minaccia del nulla, s’illude tramite la proiezione nostalgica (evidente nel caso, appunto, del “com’era dov’era”), prima di scoprire nell’oblio la negazione stessa dell’identità. Per capire come mai si può asfissiare l’identità anche nel ripiego nostalgico, possiamo riprendere ancora Augé, che distingue l’oblio in base a tre forme: il ritorno (perché tornare al passato è impossibile), la sospensione (perché fermare il tempo è impossibile) e l'inizio (perché inaugurare un tempo che sia totalmente nuovo è illusorio)[2]. In tal senso L'Aquila appare come una città sospesa: tra l'impossibilità di un ritorno puro e le illusioni e i rischi di un inizio impervio su cui costruire un tempo concreto, ossia un luogo reale.

Verosimilmente, nei luoghi disastrati, la possibilità di restituire l’azione entro un orizzonte dell’operabile secondo il valore è vincolata alla comprensione che l’evento catastrofico è in se stesso un evento fondativo, un elemento identitario, e quindi una soglia da accogliere nel senso del luogo: la possibilità non è nella rimozione, ma nell’onere di attraversamento dell’evento, che va accolto, interpretato e reificato entro un’intenzione che sappia contemplare ritorni e superamenti. Può essere utile in tal senso riportare le parole di Georges Balandier, il quale osserva che: «la scelta della conservazione comporta il rischio di una lenta disgregazione mascherata dall’illusione della continuità, e che la vera continuità, ripresa ad un altro livello, esige una trasformazione profonda, largamente determinata dalle condizioni esterne»[3]. Anche un terremoto, da un punto di vista socio-culturale, è un ingresso di differenza nel senso del luogo, un evento cui va, prima d’altro, attribuito senso. Non a caso la città che vivevamo prima di questo terremoto conteneva, nelle sue varietà, l’esito di tante ricostruzioni portate da terremoti, guerre e altri stravolgimenti del tempo. Invece ora la conservazione, degenerando da valore circostanziato a ossessione generica, minaccia di travalicare il senso storico-artistico-architettonico portando al rischio della tentazione museale: la città-museo sarebbe una città morta, mentre L’Aquila può rinascere solo come città-laboratorio, sempre che – oltre le volontà e gl’interessi – ci siano risorse e capacità.



[1] Cfr.: M. Augé, Rovine e macerie: il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

[2] Cfr.: M. Augé, Le forme dell’oblio, Il Saggiatore, Milano, 2000.

[3] G. Balandier, Le società comunicanti: introduzione all’antropologia dinamista, Laterza, Bari, 1971, p. 95.

IL CAVALLO DI TROIA DELLA CRISI, DALL’AQUILA ALL’UNIVERSITA’ 10-12-2010

testo pubblicato su “Left” del 10-12-2010 con il titolo “Le macerie de L’Aquila e dell’Università”

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Faccio il ricercatore all’Università, istituzione in crollo, e vivo a L’Aquila, città terremotata. Questo mi pone nella coincidenza di due realtà pericolanti, da ricostruire. Poi, la mia materia è l’antropologia culturale, e ciò tende a rendermi particolarmente vicino a un universale uso umano: la comparazione di differenze, ovvero lo svelamento di piani di similitudine nel contatto tra diversità. Nello specifico non posso non notare che, da un po’ di mesi, le macerie e i caschetti di una città terremotata sono diventati metafora nazionale per rappresentare una crisi sistemica. A L’Aquila, dopo il terremoto, il linguaggio catastrofico ha perso la sua dimensione simbolica per diventare referente di una situazione concreta. Questo comporta che la situazione aquilana, la gestione dell’emergenza, guardata da un certo punto di vista, restituisce una sorta di Stele di Rosetta che ci consente di decriptare un fenomeno che attraversa e accomuna le differenti parvenze con cui, da tempo, si manifesta.

A L’Aquila la necessità di dare un tetto ai terremotati è stata un mezzo per imporre la decisione del progetto c.a.s.e., omettendo soluzioni più economiche e più sostenibili, e favorendo le cordate aziendali connesse a tale progetto, dove l’aiuto ha consentito a grandi gruppi di “aiutarsi” attraverso margini enormi di profitto. A L’Aquila il Governo ha parlato di “emergenza risolta” e di “ricostruzione esemplare”, ma la città si svela ancora annientata. L’Università italiana si trova nella necessità di rinnovarsi, e tale esigenza viene strumentalizzata dal ddl Gelmini per programmare una riduzione, fatta di tagli demolitivi. L’Università ha da risolvere il problema del nepotismo baronale, e ciò diventa pretesto per un’aziendalizzazione del sistema della formazione che è preludio a un’irreggimentazione politica dei saperi fondata su un centralismo che istituirà nuove baronie rafforzando quelle vecchie. Gli aquilani sanno che non c’è stata nessuna ricostruzione, ma il Governo parla di ricostruzione; i baroni universitari sono ufficialmente a favore del ddl Gelmini, ma il Governo dice che il ddl è contro i baroni. Si tratta dell’uso performativo delle parole, che è un uso sistematicamente orwelliano: nella parola ‘ricostruzione’ si è nascosta la costruzione ex-novo di costosissimi agglomerati di cartongesso; nella parola ‘riforma’ si nascondono una demolizione e una privatizzazione dell’Università.

Parole come strumenti d’inganno, che servono a mistificare attraverso la sineddoche, dove ciò che non conviene in termini di consenso viene occultato dai riflettori: la “cura” diventa veicolo di sfruttamento; di una città, come di un’istituzione. È in ciò che emerge un nesso sostanziale: una strategia di potere incentrata sull’utilizzo delle situazioni di crisi come cavallo di Troia per legittimare ingannevolmente un autoritarismo finalizzato alla riduzione dei beni collettivi a strumenti di profitto per gruppi di speculatori privati. La necessità dell’intervento fa da pretesto per la decisione riguardo la forma che lo stesso dovrà assumere, la quale viene rappresentata come la migliore se non l’unica possibile: entro una narrazione che parla ingannevolmente di scelte fatte per la gente, si agisce per massimizzare il profitto attraverso la predazione del pubblico. Così la retorica del “fare” maschera la prassi del “fare affari”, in una politica che da anni ha subordinato il sociale all’economia. Questo metodo vuole raggiungere uno scopo politico-culturale che non è una semplice privatizzazione: la feudalizzazione della società civile entro protettorati imprenditoriali.

C’è poi un problema enorme che concausa ciò: l’assuefazione del senso comune allo sciacallaggio perpetrato dal fondamentalismo capitalista, la falsa credenza nell’ineluttabilità del principio della massimizzazione degli utili economici, l’inconsistenza di alternative che configura da anni un antagonismo fondato sul bisogno della presenza egemonica del potere contestato, la riduzione della protesta a rappresentazione di dissenso fine a se stessa. Silenziosamente l’iperbole contestativa del “chiedere l’impossibile” si è da anni rovesciata in una sensazione d’impossibilità del chiedere. Questo sentimento di disillusione riduce il mutamento radicale, la rivoluzione, a rituale generazionale, nel preconcetto che il mondo non si può cambiare; fraintendendo una realtà storica quella della località delle rivoluzioni: se il mondo raramente cambia in modo totale, sempre e inevitabilmente cambia in piccole parti. Così la cultura del dissenso è si è musealizzata in un canovaccio post-adolescenziale, che – oltre lo spazio di “riserva” dei cerimoniali di protesta – non riesce ad evitare la disillusione apatica, lo stigma dell’irrazionalismo, della nostalgia sessantottina, del folklore ribelle, dell’estremismo, dell’inutilità.

Anche in questi giorni si sente ri-proclamare enfaticamente la “rivolta contro l’esistente”, si lanciano accuse di fascismo al Governo così generiche da dare l’impressione di una vuota liturgia della contestazione; e il dissenso è congestionato tra questi eccessi isterici di nostalgia folklorizzante e l’opposto apatico della disillusione. Viceversa è giunto il momento di concretizzare; e forse l’improponibilità di questo decreto è più inevitabile dell’ossimoro nel quale – tra disincanto verso il futuro e nostalgie folklorizzanti – affogano da anni le proteste.

Ma, anche separando il progetto dalla protesta, ci vuole motivazione; mentre questo movimento ha un problema fondamentale che è correlato a una carenza di motivazione: non ha un nome. La Pantera prese il nome da una concomitanza di cronaca: l’atto naturalmente selvaggio di un animale in ribellione da una gabbia. Invece questi sono i giorni del gesto di rivolta di Mario Monicelli, che ha deciso in una primordialente pagana manifestazione di volontà di togliersi la vita, conto un biopotere che mira a controllare i corpi, negando il diritto alla morte. Monicelli sta tra Eluana Englaro e L’Aquila, tra la costrizione in vita che si impose su un corpo di ragazza inanimato e l’alienazione dello spirito di un luogo ferito, privato di autonomia, costretto all’eterodirezione. Entrambe segni di una cura finalizzata alle macchine più che alla guarigione, al profitto più che all’esistenza. Monicelli ha detto no, e infine ha dato un riscatto alla sua “Armata Brancaleone”, ha sciolto l’incantesimo dell’ineluttabilità della sconfitta ristabilendo un principio che volle far raccontare ai suoi eroi imperfetti: l’umanità. Recuperare la possibilità del gesto è segno di autonomia, ma l’autonomia viene da una premessa: la capacità di darsi un nome, ossia un senso. Non so come si vorrà chiamare o se riuscirà a trovarsi un nome, ma spero che quest’ “Armata Brancaleone” vincerà; perché a volte si può anche vincere, e bisogna ricordarselo.

Si può vincere se si mette a fuoco la situazione, evitando gli opposti eccessi tra illusione e frustrazione, perché all’inganno non si risponde con l’illusione né al trionfalismo con la frustrazione. Oggi si può circostanziare la rivolta su un principio sostanziale di concretezza. Quando si scende in piazza, per L’Aquila o per l’Università, non si scende in piazza solo per L’Aquila o solo per l’Università, né per astratti ideali: si sta difendendo il pubblico dalle privatizzazioni, affinché possa tornare a ciò che il pubblico dovrebbe essere: un bene collettivo. Si sta tutelando la società dall’economia, perché il fondamentalismo capitalista non solo sottrae risorse alla collettività, ma le distrugge.

L’Aquila, 6-12-2010

Antonello Ciccozzi