Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

martedì 24 maggio 2011

LE NICCHIE DELL’IDIOZIA NELLA CITTA’ CHE UCCIDE 23-05-2011

un decreto che sancisce una ricostruzione che ci restituirà una città più pericolosa di prima non provoca reazioni di sdegno dei politici locali, che però spendono enormi dosi d'indignazione contro adolescenti graffitari. All'Aquila, a due anni dal sisma, si affonda sempre di più nel tragicomico.

pubblicato su:

http://www.abruzzo24ore.tv/news/Le-scritte-sulle-nicchie-le-toppe-sulle-case-il-cariatidismo-politico/36001.htm

e parzialmente su:

http://ilcapoluogo.com/News/Attualita/Le-nicchie-dell-idiozia-nella-citta-che-uccide-53484

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VANDALISMO GIOVANILE IMBRATTATORE

Quando sono stato informato del fatto che qualche misterioso adolescente ha imbrattato le appena ristrutturate nicchie della scalinata di san Bernardino, ho semplicemente osservato che “se le sono riprese, e l’hanno fatto subito e a modo loro”. “La solita esternazione di trasgressione adolescenziale” ho pensato; comunque non m’è sembrato un dramma. È noto che, se quelle nicchie hanno senso nel discorso identitario aquilano, tale senso deriva dal fatto che esse sono da tempo luogo di amori adolescenziali, di incontri di “bande” giovanili, con annessi e connessi gesti di appartenenza. M’è venuto da pensare che i ragazzi aquilani – i “quatrani” – hanno semplicemente trasformato in luogo quello spazio recuperato dai danni del sisma. Ne hanno rifatto un loro luogo, culturalizzandolo con i segni del loro orizzonte esistenziale. Hanno ripristinato un flusso interrotto da due anni, ristrutturandolo in modo plateale, sfacciato, prepotente con le loro impronte di appartenenza.

Ossia, che significano quegli scarabocchi? Forse significano un insolente “noi siamo qui”, “questo spazio è nostro, voi adulti ce lo avete restituito e noi ce lo prendiamo come vogliamo noi, in un atto di maleducata adolescenza”. Lo fanno in modo fastidioso, ma mostrano una volontà di (ri)abitare. Forse ancora una volta hanno passato la linea i “quatrani”, hanno compiuto il solito gesto incivile per gli adulti, deprecabile sotto molti punti di vista, totalmente insopportabile per il senso estetico e morale di molti, perfino inequivocabilmente illegale; ma nella clandestinità di una notte qualsiasi, probabilmente quei ragazzi hanno officiato un comune rito fondativo di subcultura giovanile.

I cani pisciano agli angoli dei muri, gli eserciti piantano bandiere sulle colline conquistate, i muratori lo fanno sui tetti delle case, gli antichi tracciavano con l’aratro il solco che delimita una neonata città, gl’innamorati incidono cuori sulle cortecce degli alberi, gli adolescenti imbrattano o dipingono i muri. Spesso lo fanno in modo indecente, provocatoriamente o stupidamente vandalistico, deturpando luoghi di valore storico-artistico sovrapponendovi scarabocchi insignificanti, altre volte abbelliscono orrendi muri con vere e proprie opere d’arte. Certamente quelle nicchie hanno un valore storico, e questo rende inaccettabile il gesto, ma quel gesto è un atto identitario; forse uno dei più spontanei e forti atti identitari che si sono visti in questi due anni. Perciò quel segno è intrinsecamente ambivalente.

Voglio dire che, per quello che può contare a mio personale parere, l’atto in questione si pone certamente al limite del comune senso di decenza, e lo supera, ma solo per qualche verso. Questo perché, se l’espressione grafica infastidice, o meglio, se l’irriverenza nei confronti degli elementi monumentali cui si è rivolta indigna, c’è un probabile contenuto culturale che non può che rincuorare: i “quatrani” hanno scritto che ci sono, hanno riabitato uno spazio che era loro, e che comunque si è detto che s’è recuperato per darlo a loro. Hanno rifiutato il ruolo di utenti passivi (lo stesso che è imposto a chi abita il progetto C.A.S.E. nel divieto perfino di appendere un quadro al muro) e lo hanno voluto abitare attivamente trasformandolo attraverso i loro segni. Hanno scritto che vogliono il centro storico, non un centro commerciale. Lo hanno fatto attraverso un costume che, come adulti, è appropriato e doveroso contrastare; ma che va ricondotto – fuori da eccessi politico-drammaturgici – in una più ampia dialettica tra trasgressione ed educazione; che, ben oltre queste nicchie, da sempre regola i rapporti tra adolescenza e maturità.

Per quanto mi riguarda, posto che viverle senza impiastrarle in quell’eccesso di scarabocchi sarebbe meglio, ritengo meno scandalose quelle nicchie imbrattate ma vissute piuttosto che degli elementi architettonici intonsi e consolatoriamente mummificati. E, proprio al limite, se quello è un graffio anche contro la tentazione della nostalgia, contro il “com’era dov’era” idiota, più idiota di un idiota scarabocchio, per qualche verso ne sono lieto. Anche perché probabilmente il gesto in questione riporta a un concreto “com’era dov’era” del centro storico degli adolescenti, e denota un tratto vitale nell’atto di ribellione, intenzionale o meno che sia, contro la museificazione della città. Parla, nella sua primordiale volgarità, dell’uso contro la contemplazione. Probabilmente nella sua foga è un segno di disagio adolescenziale: uno sfogo di ragazzi che vogliono una città, la loro città.

Dico sempre “probabilmente” in quanto non posso che avanzare ipotesi: bisognerebbe sapere se, nelle intenzioni di chi lo ha compiuto, quello è il segno di una volontà di abitare o un vezzo distruttivo, se è un attacco a un bene artistico, o una dimostrazione di attaccamento a un bene culturale (le nicchie come spazi adolescenziali che si vogliono addobbare come le camerette). Fare un graffito quasi mai è un gesto meramente distruttivo, come può essere tirare un sasso contro una vetrina o spaccare gli specchietti delle macchine parcheggiate fuori i centri commerciali. Poi, come si sa, il senso artistico è intersoggettivo in quanto culturalmente condizionato; così, in casi simili, quello che per la subcultura borghese è “uno sfregio”, per una subcultura giovanile può essere “una ficata”.

All’Aquila si dice in vernacolo: “fagli fa, so qquatrani!”, ma si dice anche “piano, quatrà!”. Basta questo a dare il senso del limite, che certamente sotto certi aspetti si è passato, ma si è passato in modo tanto inammissibile quanto vitale, come spesso fanno gli adolescenti, che comunque quelle nicchie le avevano già imbrattate ben prima del terremoto, stratificandole con i segni della loro usuale ribellione; che le hanno ristrutturate a modo loro, deprecabile quanto vogliamo, ma certamente identitario, della loro identità compressa di adolescenti, qui più in gabbia che altrove. Poi non ho visto un dramma in quei graffiti giovanili anche perché, a mio parere, in questo momento in città i drammi sono ben altri.



CARIATIDISMO POLITICO IMBELLETTATO

La reazione indignata della cittadinanza contro i graffitari delle nicchie ha visto in prima linea il sindaco Massimo Cialente, che ha rilasciato una dichiarazione plateale, veemente, sorprendentemente severa:

«non ci sono parole per esprimere il disprezzo nei confronti di chi, dopo appena 12 ore dalla riconsegna dei lavori, ha voluto vanificare il lavoro e la passione posti in questa opera. So di compiere un atto politicamente non corretto ma sono talmente indignato e offeso, come lo sono certamente tutte le aquilane e tutti gli aquilani, che ho deciso di promuovere una taglia perché vengano scovati questi idioti e delinquenti. Una ricompensa, i primi 1.000 euro li metto io personalmente, a chi fornirà alle forze dell’ordine e all’autorità giudiziaria degli elementi fondati, che portino all’identificazione e alla denuncia di chi si è reso protagonista di tale scempio. Persone che, con questo gesto vergognoso, hanno imbrattato anche la nostra anima, la nostra vita e la nostra identità».

A leggere questo comunicato verrebbe da pensare che le nicchie siano state non scarabocchiate ma bombardate: il sindaco dichiara che la sua “offesa”, il suo “disprezzo”; la sua “indignazione” è talmente tanta da spingerlo – forse ancora suggestionato dalla recente esecuzione western di Bin Laden – “consapevolmente” addirittura a un atto “politicamente non corretto” (il primo della sua carriera di sindaco, il primo dal terremoto): decreta un wanted all’americana maniera, una sceriffesca “taglia” per chi aiuterà a “scovare” i colpevoli di “tale scempio”! Il giorno dopo il primo cittadino rincara la dose; e, in un’intervista telefonica, dopo aver chiarito che l’iniziativa della “taglia” non è affatto una provocazione, continua a scagliarsi contro gl’imbrattatori, e ipotizza perfino una chiave di lettura complottista, parlando di un “retroterra politico” in cui ci sarebbe “qualcuno che vuole portare confusione in città”.

Ma questo è il dramma della città? Se mi posso permettere la cosa mi preoccupa un po’, in quanto in questa foga inquisitoria contro gl’imbrattatori delle nicchie possono essere lette due tendenze di fondo. La prima riguarda una pulsione: il proiettare un’incapacità ormai manifesta nel contrastare ben altri drammi che attanagliano la città, trasferendola su un capro espiatorio. La seconda riguarda un limite cognitivo, e la vicenda delle nicchie appare come uno specchio rovesciato che rivela per opposizione complementare una carenza enorme: l’incapacità di individuare le priorità e le scale di rilevanza nella serie di avvenimenti che riguardano la città post-sismica.

A mio parere è scandaloso che, mentre da due anni siamo sottoposti a un bombardamento a tappeto che ha ridotto L’Aquila a una colonia per profittatori politico-economici di tutt’Italia, a uno sciacallaggio interno in cui una metà della città pasteggia da mesi sulle macerie dell’altra metà, le parole più dure del primo cittadino non sono contro una politica che da due anni condanna senza possibilità d’appello la città a una ricostruzione incerta non solo nei fondi, ma soprattutto nella sicurezza. Il sindaco si scaglia e passa la linea della correttezza politica contro gli ignoti autori dello scempio delle nicchiette. E non è il solo, in quanto quei graffiti pare abbiano sconvolto la maggior parte dei politici aquilani oltre che tanti cittadini. Personalmente invece ciò che trovo veramente inaccettabile è che quelle nicchie imbrattate possano fornire il materiale populistico per un maquillage politico in cui delle cariatidi amministrative vogliono ancora sembrare sentinelle attente al bene della città, mimetizzando ancora una volta una comprovata incapacità ad individuare le priorità su cui intervenire per la tutela di un luogo disastrato e drammaticamente bisognoso di urgenti interventi di tutela.

Mentre s’insorge contro lo scempio delle nicchie, ossia contro misteriosi adolescenti che hanno fatto quello che hanno sempre fatto, non si è in grado di mostrare un atto indignazione forte, plateale, epocale, un gesto di contestazione totale contro un decreto che sancisce il rattoppo del tessuto abitativo pericolante, quasi mezza città, e che ci restituirà una L’Aquila più pericolosa di prima del 6 aprile 2009, una città maledetta che al prossimo terremoto catastrofico ucciderà più persone di quelle che abbiamo appena pianto.

Perciò, se mi dovessero chiedere che significano quegli scarabocchi sulle nicchie di san Bernardino, a questo punto risponderei che li ho decifrati così: “L’Aquila è una città ancora confusa dal trauma del terremoto, dove tale confusione significa perdita del senso delle priorità, delle scale di rilevanza, dove i politici s’indignano per degli adolescenti che imbrattano una nicchia ma tacciono riguardo un decreto governativo che ci restituirà una città rattoppata e più pericolosa di prima, pronta ad uccidere di nuovo i suoi abitanti”. Quei graffiti, che vanno parafrasati per essere compresi, dicono che bisogna prendere coscienza delle priorità e che bisogna rimuovere le cariatidi politiche che governano la città nel segno del solito immobilismo che, a partire dalla paura di perdere la poltrona, ora si manifesta a partire da una pericolosa incapacità cognitiva.



UNA PREGHIERA AL SINDACO, AGLI AMMINISTRATORI LOCALI, ALLA CITTADINANZA ATTIVA

Chiedo al sindaco Massimo Cialente e a tutti gli amministratori locali e alla cittadinanza attiva di convogliare tutta questa sorprendente indignazione esplosa per una bomboletta di vernice rossa contro una serie di problemi da intendere in base a una scala di priorità:

- il decreto sulla ricostruzione pesante, che, fissando un limite minimo di sicurezza accettabile del 60%, condanna mezza cittadinanza a un pericoloso futuro di drammatico rischio di ecatombe, in una città che ha già ucciso tre volte e che in tal modo lo rifarà.

- Il decreto sugli edifici tutelati (circa 1800), che stabilisce che in questi casi non è obbligatoria nemmeno la soglia di sicurezza del 60%.

- L’assurda situazione delle macerie, in cui non si è arrivati ancora a una soluzione basata su un impianto di riciclaggio, secondo tecnologie già esistenti e presenti in Italia. Solo nella possibilità di ricilare le macerie potrà essere abbattuta l’enorme quantità di edifici pericolanti. Edifici che vanno buttati giù, non rattoppati attraverso costosissimi interventi utili più a lobbies imprenditoriali che al bene comune aquilano.

- Il rischio che il centro storico finisca “gentrificato” ossia espropriato alla gente da cordate imprenditoriali; questo a partire dal pretesto dei tempi lunghissimi di ricostruzione, usato come ricatto per favorire svendite di massa da parte dei proprietari meno abbienti.

- La mancanza di una tassa di scopo, di un dispositivo di prelievo fisso, che precarizza questa ricostruzione, condannandola alla perenne elemosina, esponendola al ricatto della politica.

- La vacuità della zona franca, da due anni declamata come obiettivo economico, mai ragionata nelle precauzioni che essa eventualmente necessita (a partire dal rischio di diventare un porto per rilanciare economie altrui), mai comunque ancora non ottenuta, dopo due anni.



Insomma: il primo problema dell’Aquila è la sicurezza, l’ultimo i murales di adolescenti disagiati che non vanno trattati da ricercati del far west. La cittadinanza aquilana ha manifestato in massa contro le tasse, è scesa in piazza per cercare di mettersi in tasca quattro soldi di cui ha beneficiato anche chi non ha avuto nessun danno dal sisma (circa metà degli aquilani, una vergogna, questa sì, altro che i murales delle nicchiette). Per dire un NO secco al decreto che rattoppa L’Aquila non è sceso in piazza nessuno, e nessun politico si è ribellato. Finora siamo stati ad arrabattarci nei meandri di decreti inaccettabili sulla ricostruzione pesante, invece di rifiutarli in blocco con un gesto plateale di contestazione civica. Finora non siamo stati capaci di esprimere dissenso contro un dispositivo che ipoteca il nostro futuro. Ogni volta che abbocchiamo e cadiamo nella discussione sui meandri burocratici di decreti che sono da rifiutare in blocco ci comportiamo come cavie da laboratorio, che invece di trovare l’apertura della gabbia, girano a vuoto dentro una rotella.

Amministratori aquilani: la “scorrettezza politica”, prima di manifestarla mettendo “taglie” contro adolescenti con la bomboletta di vernice, praticatela a Montecitorio, sbattendo in faccia ai governanti i decreti “rattoppa-città” che ci consegneranno a un futuro di rischio, in una città assassina. Tutta quell’“offesa”, quel “disprezzo”, quell’“indignazione” riversata contro quei ragazzi, a tal punto da indurvi a passare – e sarebbe ora prima che sia troppo tardi – il limite della correttezza politica riversatela sullo scempio dei decreti “rattoppa-città”. Cristo! fatelo subito PER UNA RICOSTRUZIONE IN SICUREZZA AL 100%, SENZA SE’ E SENZA MA.




UN APPELLO AGLI ADOLESCENTI AQUILANI

Bombardate senza esitare tutte le nicchie dell’idiozia locale, del “com’era dov’era” autocompiaciutamente nostalgico; e mettete una taglia su tutte le cariatidi politiche che pensano prima a conservare la poltrona e le muffe del passato che a tutelare il diritto dei giovani di avere spazi autonomi di socializzazione. Sono figure deleterie anche quando si bardano di panni variamente progressisti. Certo, sono tanti, ma un euro a testa è anche troppo. E poi, agli imbrattatori: se potete, smettetela con le bombolette spray sui monumenti.

L’Aquila. 23-05-2011



PS

Troppo politically correct non lo sono mai stato, e men che mai mi va in questo caso di esserlo. Chi si ritrova in case inagibili che rischiano di essere rattoppate, di tornare più pericolose di prima, deve iniziare a svegliarsi. Vorrei restare all’Aquila, ma non posso mettere a repentaglio la vita della mia famiglia, a partire dalle mie figlie, a causa di una ricostruzione idiota, fatta senza tener conto dell’imprescindibilità della messa in sicurezza reale e totale. Come tutti quelli che sono usciti da edifici gravemente danneggiati, io e la mia famiglia ci siamo salvati per pura fortuna: se il terremoto fosse durato qualche secondo in più, o se fosse stato di qualche decimo di grado più intenso, avremmo fatto parte dei 20-30.000 morti del terremoto del 6 aprile 2009. Questo me lo ricordo ogni giorno, e ogni volta che vedo o leggo dei parenti delle vittime. Siamo stati solo più fortunati. Questo terremoto ha salvato tanta gente, a caso, senza nessun riguardo per le vittime, ma adesso mezza città è pericolante, né illesa né rasa al suolo. Mezza città è pericolosa, e se seguitiamo così seguiterà ad esserlo.

Ma L’Aquila e il terremoto sono due entità separate? Ci dobbiamo mettere in testa prima di ogni altra cazzata (e questa delle nicchie è una cazzata immane, nella misura della reazione spropositata che ha suscitato, una cazzata che può avere la funzione positiva di allenarci a individuare l’apatia, l’indifferenza, la distrazione nei confronti di drammi epocali di cui non ci accorgiamo) che L’Aquila è una città assurda, assassina, una serial killer che da parecchi secoli ogni tanto impazzisce improvvisamente e fa una strage.

Un posto che quasi sempre ha un grande fascino, forse unico per chi ci è nato, ma che ogni tanto si trasforma in un attimo, e improvvisamente diventa un inferno. La cosa più indicibilmente assurda del terremoto è che arriva in un attimo, totalmente all’improvviso, come un’esplosione, la cosa più assurda è che ti ritrovi dentro una deflagrazione infinitamente dilatata. Io non me ne scordo, perciò non posso sopportare quello che sta succedendo, o meglio, quello che non sta succedendo dopo due anni. Forse sono arrivato alla nausea perché è dal 28 maggio 2009 che scrivo per sensibilizzare sulla questione della ricostruzione in sicurezza, ma a quanto pare inutilmente.

All’Aquila ci voglio restare, ma se e solo se ci posso stare in sicurezza. Non voglio consolarmi con l’idiota ed egoista credenza neo-folkloristica che “tanto mò ha fatto, refà fra trecent’anni”: idiota perché non è detto che non arrivi un’altra volta anche domani, egoista perché, anche se così fosse, fra trecent’anni la gente sarà uccisa dalla nostra incoscienza. Il rischio più grosso che corriamo parte dalla rimozione della consapevolezza sulla pericolosità della città: L’Aquila è pericolosa, e quest’idea di città deve entrare nella nostra cultura antropologica, nel senso del luogo, come premessa imprescindibile per costruire, per vivere. Non voglio che le mie figlie finiscano ammazzate da qualche bel cornicione d’indubbio valore storico-artistico, appena ristrutturato secondo i dettami di un decreto inammissibile, e crollato al prossimo terremoto disastroso; o da un condominio adeguato al 60% di una normativa assolutamente vergognosa.

La storia, la memoria, i palazzi in pietra, i condomini in cemento armato a 4 o 5 livelli non sono simicamente sostenibili; e quello che vorrei vedere nei prossimi anni sono solo bulldozer che radono al suolo la città pericolante senza valore storico, e la portano in un impianto che la ricicla. Lo vorrei vedere insieme a un’idea nuova di città che riesca a non confondere la memoria con la nostalgia, la storia con il passato, la sostenibilità con la speculazione. E poi, non riesco ad ammettere la tutela del valore storico al di sotto di una sicurezza del 100%. La storia dovrebbe servire prima di tutti a ricordarci che L’Aquila è una città, forse l’unica, che serialmente ha ucciso i suoi abitanti. Oggi questa maledizione si può spezzare, e invece ci siamo incamminati sulla strada che la riproduce.

Cercare di ottimizzare la sicurezza in base alle tecnologie disponibili. Questo L’Aquila dopo gli altri terremoti lo ha sempre fatto, cercando di ricostruirsi non pretendendo il passato, ma secondo i migliori parametri di sicurezza in ogni epoca disponibili. Solo ora, nella storia di una città annientata tre volte dal suo “subconscio geologico” – il terremoto che gli abita sotto – sarebbe possibile accedere a una tecnologia capace di garantire una sicurezza pressoché totale. Una tecnologia che invece non arriviamo ad adottare, accettando di rattoppare, tra l’idiozia di amministratori locali attaccati alla poltrona, e incapaci di ribellarsi contro i potenti sulle questioni cruciali, e l’egoismo di un governo nazionale e di una cornice economica che hanno ridotto la città alla stregua di una paziente comatosa: una colonia da sfruttare attraverso la cura, dove gl’interventi sono più finalizzati al profitto che all’utilità sociale.

domenica 22 maggio 2011

“IMMOTA MANET”: LO SCANDALO DELLE MACERIE E IL TERREMOTO CHE VERRA’ 20-05-2011


testo sul nesso tra necessità di un programma organico di riciclaggio delle macerie e possibilità di demolizione degli edifici pericolanti (quindi di ricostruzione di una città sicura)

pubblicato su:

http://www.abruzzo24ore.tv/news/Immota-manet-lo-scandalo-delle-macerie-e-il-terremoto-che-verra/35477.htm

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Sono passati oltre due anni ed è tutto immobile. A questo punto è chiaro che la ormai surreale vicenda delle macerie del post sisma aquilano è un calderone d’indegnità amministrativa, che contiene e riassume tutta la mistura di questioni che impediscono l'individuazione di soluzioni ottimali per uscire dal terremoto che, nelle sue conseguenze sociali, ancora governa il quotidiano della città, eccole:

- incapacità di progettazione e di coordinamento,

- miopia sulla visione d'insieme e a lungo termine

- immobilismo amministrativo che orienta i processi decisionali più al mantenimento delle cariche che al perseguimenti degli obiettivi

- corruzione generalizzata e sottile, implicita e ormai quasi subcosciente, finalizzata alla speculazione sull'emergenza.

Non m’interessa cadere nella trappola del cavillo, della discussione intorno ai bizantinismi delle ordinanze: in certi momenti è necessario anche distogliere lo sguardo e osservare quanto resta fuori da questa cornice di burocratese imposto. Perciò, se si vuole produrre senso comune, consapevolezza collettiva sulla gravità della vicenda, anzi, dello scandalo delle macerie, devono essere messi in evidenza alcuni punti:

1) Nelle ultime comunicazioni istituzionali si parla ancora di “smaltimento”: da anni ci sono in Europa, negli Stati Uniti, tecnologie consolidate all'avanguardia, presenti anche in Italia, per il recupero dei materiali inerti da demolizione, che vengono riciclati per produrre fondi stradali e altro. In Italia esiste anche un consorzio nazionale. Già per questo è del tutto inammissibile che si giochi una partita ancora intorno al concetto di smaltimento, rinunciando al riciclaggio (e intendo riciclaggio reale, non tanto per dire, per mettere a tacere i dubbi). Riciclare materiale inerte da edilizia significa adottare tecnologie già esistenti, non ci si deve inventare nulla: si dovrebbe chiamare chi lo fa già.

Non solo, “chi lo fa già” da tempo si era offerto, ma inutilmente: diverse ditte italiane che si occupano del recupero inerti si sono proposte spontaneamente per la soluzione del problema, e da due anni vengono puntualmente escluse. Perchè? Perchè si tratta di soldi. Parlando con un titolare di una di queste ditte mi ha detto una cosa: "per noi le macerie sono una risorsa, come le pietre per una cava, abbiamo provato a mettere a disposizione le nostre competenze semplicemente in quanto per noi è un’occasione di lavoro". Perchè allora le macerie sono un problema? Probabilmente perchè mimetizzando una risorsa in un problema si può ottenere il doppio di profitto: prima risolvendo il problema e poi sfruttando la risorsa. Questo si chiama "speculazione"; e "corruzione" è il nome del processo che consente di costruire questa cornice d'intervento. Se c’è già una strada, e se quella strada non si segue, non ci possono essere giustificazioni. È così difficile?

2) Il penoso scaricabarili sulle responsabilità tra enti locali e istituzioni nazionali a cui da tempo si assiste è uno spettacolo indegno e inaccettabile per questi motivi: non solo fornisce comode scusanti a ciascuna (contro)parte, ma non può essere portato a giustificazione in quanto ogni soggetto in questione non ha presentato un progetto organico, anche uno straccio di pdf di 10-15 pagine, come una tesina per un esame universitario, che individuasse un soggetto attuatore e una strategia di attuazione, luoghi, tempi e costi. In proposito va rilevato un punto: riguardo la questione delle macerie gli amministratori locali si giustificano spesso affermando fatalisticamente che "il Governo ci mette i bastoni fra le ruote". Ormai è una formula rituale, ben incardinata nel folklore politico aquilano (che mi è stata liturgicamente ripetuta più volte, da diversi soggetti, per la questione delle macerie, e non solo). Sono sicuro che è vero, ma non è il solo problema. A voler seguitare a parlare per metafore, mi viene da dire che i politici aquilani sulla “bicicletta” con questa scusa non ci sono nemmeno saliti, mai. Un po’ per pigrizia, un po’ perché non ci sanno andare, un po’ perché con la scusa del “bastone fra le ruote” possono rimanere fermi a “fare merenda” fra di loro. A questo punto è chiaro che gli servirebbe qualcuno che su quella “bicicletta” gli metta le “rotelle”, questo nella migliore delle ipotesi; oppure che gliela tolga del tutto. La "bicicletta" è faticosa; e limitarsi alla (giusta) lamentela è facile (ma ingiusto nei confronti dei cittadini). Evitando di salire sulla "bicicletta" si possono seguitare a fare gli affarucci clientelari di sempre (e non mi si venga a dire che la politica locale aquilana non si basa su un clientelismo bipartisan dalle fondamenta profonde e nemmeno scalfite dal sisma: è chiaro che “L’Aquiletta”, la cittadella immateriale delle clientele dell’elite amministrativa, è uscita indenne dal terremoto, è tutta agibile e fa ottimi affari). E poi, cari politici aquilani, anche se il problema fosse unicamente quello che avete il Governo contro, allora, accidenti, ribellatevi seriamente! Siamo in un momento drammaticamente epocale, che necessita di azioni forti, di coraggio, non di attaccamento alla poltrona: incatenatevi al Comune, a Montecitorio, o dove volete! Non state ad aspettare le manifestazioni organizzate dai cittadini per mettervi davanti, tradendo i motivi delle proteste in una tavola ben apparecchiata di populismo pre-elettorale da quattro soldi!

Ancora una volta, dopo oltre due anni:

Le uniche cose da smaltire sono una governance orientata all'eterodirezione del processo di ricostruzione, e un'amministrazione locale che riproduce un immobilismo patologico anche quando manifesta il proposito di rinnovarsi con figure che dovrebbero portare cambiamento, ma che invece non fanno altro che ripetere il funereo "immota manet" delle istituzioni locali.

L'unica cosa da fare con le macerie è riciclarle in un impianto che andrebbe pensato e costruito entro tecnologie e know-how già presenti in Italia. Questo per consentire non solo di smaltire quanto è già a terra: bisogna arrivare alla possibilità di demolire per non rattoppare tutto il tessuto edilizio gravemente danneggiato. Andrebbero prodotte tante macerie, tantissime, abbattendo edifici pericolosi, che se "rattoppati" ci restituiranno una città malata, più vulnerabile di prima, maledetta. Avere una visione d’insieme vuol dire comprendere l’interconnessione tra problemi che vanno risolti come elementi interrelati e interagenti dello stesso sistema: riciclaggio delle macerie, abbattimento dei palazzi pericolanti, riduzione della vulnerabilità del luogo sono elementi di un problema unico; possono essere scomponibili, ma le soluzioni non vanno elaborate in modo separato.

Più si demolirà oggi e più domani la città sarà sicura. Perciò va compreso – prima di tutto culturalmente – che le macerie sono un problema prioritario, che condiziona tutta la catena d’intervento, che va inteso dandogli rilevanza massima. Invece dopo due anni siamo ancora con le macerie dei crolli sporadici ai bordi delle strade, dove le erbacce hanno attecchito da due stagioni. Se si vuole dare senso a quanto ci succede le parole vanno usate in modo appropriato; pertanto questa vicenda delle macerie, a questo punto, dopo due anni, va intesa per quello che è: si tratta di uno “scandalo” nell’accezione più piena del termine. E stare ancora a dover leggere di scaricabarili istituzionali e d’alambiccamenti sulle ordinanze racconta un rumore che va ascoltato a distanza per comprenderne il significato. Bisogna spostarsi un attimo dai bordi del cerchio di questo coro di variamente burocratizzata imbecillità: stando oltre quel brusio di piccole intese, oltre quello scricchiolare di poltrone puntellatissime, si comprede il nefasto motto locale, salmodiato nella sua penosa variante amministrativa: “immota manet, immota manet!”. Oggi “immota manet” significa l’usuale immobilismo della politica aquilana e l’assurda immobilità di quelle macerie; materiali e immateriali: i frantumi di un’idea obsoleta di città.

Oltre l’indecenza degli schiamazzi della politica di piccolo cabotaggio, oltre l’indifferenza d’istituzioni nazionali che praticano in città operazioni più finalizzate a massimizzare il profitto di cordate imprenditoriali affiliate al Governo che a ottimizzare la funzione sociale degli interventi, ci sono una pletora di case e palazzi pericolanti da demolire (e quindi di macerie da produrre e che necessitano di essere riciclate). Prima che sia troppo tardi, se si vuole rifondare la città, bisogna decidere se certi discorsi devono entrare a far parte della cultura antropologica del luogo; o se vanno rimossi, per prigrizia, per comodità, per incapacità, per interesse.

Se si seguita così, temo che il prossimo terremoto (l’unica cosa certa, in questa città di dannosi immobilismi ed evanescenti immobilità, l’unica sempre rimossa) farà più vittime di quello del 6 aprile 2009.


L'Aquila, 20-05-2011

Antonello Ciccozzi


venerdì 8 aprile 2011

IDENTITA’ E IDENTITARISMO NEL DOPO TERREMOTO AQUILANO 01-03-2011

testo pubblicato su:
Progetto città, quaderni del dopo terremoto, numero 1, marzo 2011, L'Aquila, Fabiani Stampatori.

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Osservate dal punto di vista delle dinamiche identitarie, le catastrofi si rivelano come eventi che producono diffusi cedimenti dei dispositivi d’inerzia segnica e materiale della pratica sociale. È chiaro che, in questo sgretolamento dei riferimenti che nei tempi “normali” assicurano continuità e quindi riconoscibilità culturale, il bisogno d’identità è percepito come una necessità primaria, come antidoto contro l’angoscia di un rischio del non-esserci, che si manifesta non solo come crisi della presenza soggettiva, ma come rischio stesso dell’esistenza del luogo. Così, se ritessere determinati fili interrotti rivela una funzione culturale terapeutica, carezzare più o meno consapevolmente o innocentemente l’idea che tutto possa essere ricomposto entro un ordine pre-esistente, elevare a valore a-criticamente positivo un pathos meramente nostalgico, comporta un rischio di degenerazione del discorso identitario in retoriche identitariste. Se l’identità culturale di un luogo è data dall’incessante sedimentarsi dinamico e selettivo di un flusso di eventi fondativi in un serbatoio di memoria dai confini sempre variamente sfumati, l’“identitarismo” riguarda un atteggiamento di chiusura cultuale del discorso identitario rispetto ai flussi di mutamento. Nell’esasperazione identitarista il senso del sé collettivo arriva ad implodere nella contemplazione riflessiva ed enfatica di una situazione spazio-temporale idealizzata, percepita come pura e autentica in opposizione agli sconvolgimenti portati dai cambiamenti.

Probabilmente la più pervasiva espressione di retorica identitarista presente ora all’Aquila è inquadrabile nella calata – dentro i discorsi di senso comune sulla ricostruzione –del motto che recita: “com’era dov’era”. «Com’era dov’era!» pronunciano i cittadini angosciati dal vuoto del dopo sisma; «com’era dov’era!» è il deus ex machina che ripetono i politici a corto di argomentazioni votate al futuro e in cerca di facili consensi. Quest’espressione di folklore post-sismico chiama alla necessità di qualche riflessione riguardo al campo di significati ad essa ascrivibili tra conservazione, ritorno, nostalgia, rimozione, oblio. Ciò non solo perché il senso positivo di una qualsiasi generica esortazione andrebbe tradotto in base alle quantità e alle qualità delle situazioni concrete, ma anche perché è chimerico pensare che qualsiasi cosa possa tornare puramente “com’era dov’era”. Lo stesso Friuli terremotato – dal quale è stata importata, forse troppo passivamente, questa massima – a ben vedere non è affatto tornato “com’era dov’era” oltre le apparenze, anzi: una serie di paesi-presepe sono stati ricostruiti mantenendo forme tradizionali su strutture moderne, e se le piante dei centri storici sono state conservate, ne è stata totalmente stravolta la cornice paesaggistica. Tutt’intorno a quegli atomi di ricomposta nostalgia il territorio mutava radicalmente per il vento dell’industrializzazione. Lo stesso vento che portò tante risorse e restituì alla regione un ritorno ai simulacri di quei paesi senza quel paesaggio, che da agricolo divenne industriale; il tutto in ben altri tempi economici, e in un territorio che plausibilmente si ricostruì attraverso l’industrializzazione, più che industrializzarsi nella ricostruzione.

Inteso che è poco ragionevole farne una “parola maestra”, e posta quindi una necessità di traduzione critica e problematizzante rispetto alle circostanze del “qui ed ora”, ciò che andrebbe designato traducendo questo “proverbio sismico” è, nel concreto del nostro caso, solo quello che riguarda le situazioni tutelate, ossia di alto e comprovato valore storico-artistico-architettonico. Oltre questo confine si corre un rischio articolato, da un punto di vista materiale, su due livelli: uno di elemento e uno d’insieme. Il primo livello di questo rischio riguarda i tentativi, da parte di privati o di gruppi, di speculare sulla ristrutturazione di elementi insediativi di scarso valore culturale; e in tal senso nella valle aquilana abbondano ormai catapecchie puntellate, elevate all’improbabile rango di dimore storico-tradizionali, in attesa di ancora più improbabili “manne” governative. Qui non confondere l'identità con l'identitarismo significherà in concreto saper comprendere – in un discorso dove la conservazione dialoga con la funzione e non costringe a compromessi rispetto alla sicurezza – la differenza tra monumenti e catapecchie, tra antico e vecchio; e, soprattutto, tra il valore di riconoscimento culturale collettivo e la pretesa dell’interesse economico individuale (che spesso nel primo si mimetizza).

Il secondo livello materiale del rischio identitarista concerne l’incapacità di progettare, o finanche di concepire, un’eventualità di mutamento radicale complessivo in una realtà che oggi si presenta come un embrione di città diffusa; dove un’eventuale coalescenza dei frammenti attuali non potrà che significare crescita, con il rischio di uno sviluppo solo quantitativo, di declinare L’Aquila da città storica a uno di quegli aggregati che Marc Augé chiama “città generica”[1], o di trasformare il territorio in una discarica prima urbanistica e poi sociale, a partire da un dissennato uso del suolo interno a quest’urbanità tratteggiata. Il tutto è da accostare, viceversa, con il pericolo opposto di una diaspora a causa dell’incapacità di saldare le distanze attualmente presenti intorno alla città ferita; o con il timore che gran parte della città e dei paesi limitrofi resti in macerie o pericolante, per molti anni o per sempre; diventando segno di un mondo che, inviluppato in logiche di profitto e ormai troppo complesso e fragile, non è più capace di rigenerarsi, di cicatrizzare le catastrofi, nemmeno locali (a meno di svendite speculative che ora si annunciano nell’abbattimento preventivo del valore economico degli edifici).

È attraversando questa linea, oltre il rovistare di certi opportunismi politico-economici, che – dietro l’apparente innocenza di un detto – il ripiego identitarista rimanda a un rischio non più materiale ma simbolico, inquadrabile nel vano tentativo di rimozione dell’evento traumatico. Qui l’angoscia da separazione, ossia l’incombere della minaccia del nulla, s’illude tramite la proiezione nostalgica (evidente nel caso, appunto, del “com’era dov’era”), prima di scoprire nell’oblio la negazione stessa dell’identità. Per capire come mai si può asfissiare l’identità anche nel ripiego nostalgico, possiamo riprendere ancora Augé, che distingue l’oblio in base a tre forme: il ritorno (perché tornare al passato è impossibile), la sospensione (perché fermare il tempo è impossibile) e l'inizio (perché inaugurare un tempo che sia totalmente nuovo è illusorio)[2]. In tal senso L'Aquila appare come una città sospesa: tra l'impossibilità di un ritorno puro e le illusioni e i rischi di un inizio impervio su cui costruire un tempo concreto, ossia un luogo reale.

Verosimilmente, nei luoghi disastrati, la possibilità di restituire l’azione entro un orizzonte dell’operabile secondo il valore è vincolata alla comprensione che l’evento catastrofico è in se stesso un evento fondativo, un elemento identitario, e quindi una soglia da accogliere nel senso del luogo: la possibilità non è nella rimozione, ma nell’onere di attraversamento dell’evento, che va accolto, interpretato e reificato entro un’intenzione che sappia contemplare ritorni e superamenti. Può essere utile in tal senso riportare le parole di Georges Balandier, il quale osserva che: «la scelta della conservazione comporta il rischio di una lenta disgregazione mascherata dall’illusione della continuità, e che la vera continuità, ripresa ad un altro livello, esige una trasformazione profonda, largamente determinata dalle condizioni esterne»[3]. Anche un terremoto, da un punto di vista socio-culturale, è un ingresso di differenza nel senso del luogo, un evento cui va, prima d’altro, attribuito senso. Non a caso la città che vivevamo prima di questo terremoto conteneva, nelle sue varietà, l’esito di tante ricostruzioni portate da terremoti, guerre e altri stravolgimenti del tempo. Invece ora la conservazione, degenerando da valore circostanziato a ossessione generica, minaccia di travalicare il senso storico-artistico-architettonico portando al rischio della tentazione museale: la città-museo sarebbe una città morta, mentre L’Aquila può rinascere solo come città-laboratorio, sempre che – oltre le volontà e gl’interessi – ci siano risorse e capacità.



[1] Cfr.: M. Augé, Rovine e macerie: il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

[2] Cfr.: M. Augé, Le forme dell’oblio, Il Saggiatore, Milano, 2000.

[3] G. Balandier, Le società comunicanti: introduzione all’antropologia dinamista, Laterza, Bari, 1971, p. 95.

IL CAVALLO DI TROIA DELLA CRISI, DALL’AQUILA ALL’UNIVERSITA’ 10-12-2010

testo pubblicato su “Left” del 10-12-2010 con il titolo “Le macerie de L’Aquila e dell’Università”

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Faccio il ricercatore all’Università, istituzione in crollo, e vivo a L’Aquila, città terremotata. Questo mi pone nella coincidenza di due realtà pericolanti, da ricostruire. Poi, la mia materia è l’antropologia culturale, e ciò tende a rendermi particolarmente vicino a un universale uso umano: la comparazione di differenze, ovvero lo svelamento di piani di similitudine nel contatto tra diversità. Nello specifico non posso non notare che, da un po’ di mesi, le macerie e i caschetti di una città terremotata sono diventati metafora nazionale per rappresentare una crisi sistemica. A L’Aquila, dopo il terremoto, il linguaggio catastrofico ha perso la sua dimensione simbolica per diventare referente di una situazione concreta. Questo comporta che la situazione aquilana, la gestione dell’emergenza, guardata da un certo punto di vista, restituisce una sorta di Stele di Rosetta che ci consente di decriptare un fenomeno che attraversa e accomuna le differenti parvenze con cui, da tempo, si manifesta.

A L’Aquila la necessità di dare un tetto ai terremotati è stata un mezzo per imporre la decisione del progetto c.a.s.e., omettendo soluzioni più economiche e più sostenibili, e favorendo le cordate aziendali connesse a tale progetto, dove l’aiuto ha consentito a grandi gruppi di “aiutarsi” attraverso margini enormi di profitto. A L’Aquila il Governo ha parlato di “emergenza risolta” e di “ricostruzione esemplare”, ma la città si svela ancora annientata. L’Università italiana si trova nella necessità di rinnovarsi, e tale esigenza viene strumentalizzata dal ddl Gelmini per programmare una riduzione, fatta di tagli demolitivi. L’Università ha da risolvere il problema del nepotismo baronale, e ciò diventa pretesto per un’aziendalizzazione del sistema della formazione che è preludio a un’irreggimentazione politica dei saperi fondata su un centralismo che istituirà nuove baronie rafforzando quelle vecchie. Gli aquilani sanno che non c’è stata nessuna ricostruzione, ma il Governo parla di ricostruzione; i baroni universitari sono ufficialmente a favore del ddl Gelmini, ma il Governo dice che il ddl è contro i baroni. Si tratta dell’uso performativo delle parole, che è un uso sistematicamente orwelliano: nella parola ‘ricostruzione’ si è nascosta la costruzione ex-novo di costosissimi agglomerati di cartongesso; nella parola ‘riforma’ si nascondono una demolizione e una privatizzazione dell’Università.

Parole come strumenti d’inganno, che servono a mistificare attraverso la sineddoche, dove ciò che non conviene in termini di consenso viene occultato dai riflettori: la “cura” diventa veicolo di sfruttamento; di una città, come di un’istituzione. È in ciò che emerge un nesso sostanziale: una strategia di potere incentrata sull’utilizzo delle situazioni di crisi come cavallo di Troia per legittimare ingannevolmente un autoritarismo finalizzato alla riduzione dei beni collettivi a strumenti di profitto per gruppi di speculatori privati. La necessità dell’intervento fa da pretesto per la decisione riguardo la forma che lo stesso dovrà assumere, la quale viene rappresentata come la migliore se non l’unica possibile: entro una narrazione che parla ingannevolmente di scelte fatte per la gente, si agisce per massimizzare il profitto attraverso la predazione del pubblico. Così la retorica del “fare” maschera la prassi del “fare affari”, in una politica che da anni ha subordinato il sociale all’economia. Questo metodo vuole raggiungere uno scopo politico-culturale che non è una semplice privatizzazione: la feudalizzazione della società civile entro protettorati imprenditoriali.

C’è poi un problema enorme che concausa ciò: l’assuefazione del senso comune allo sciacallaggio perpetrato dal fondamentalismo capitalista, la falsa credenza nell’ineluttabilità del principio della massimizzazione degli utili economici, l’inconsistenza di alternative che configura da anni un antagonismo fondato sul bisogno della presenza egemonica del potere contestato, la riduzione della protesta a rappresentazione di dissenso fine a se stessa. Silenziosamente l’iperbole contestativa del “chiedere l’impossibile” si è da anni rovesciata in una sensazione d’impossibilità del chiedere. Questo sentimento di disillusione riduce il mutamento radicale, la rivoluzione, a rituale generazionale, nel preconcetto che il mondo non si può cambiare; fraintendendo una realtà storica quella della località delle rivoluzioni: se il mondo raramente cambia in modo totale, sempre e inevitabilmente cambia in piccole parti. Così la cultura del dissenso è si è musealizzata in un canovaccio post-adolescenziale, che – oltre lo spazio di “riserva” dei cerimoniali di protesta – non riesce ad evitare la disillusione apatica, lo stigma dell’irrazionalismo, della nostalgia sessantottina, del folklore ribelle, dell’estremismo, dell’inutilità.

Anche in questi giorni si sente ri-proclamare enfaticamente la “rivolta contro l’esistente”, si lanciano accuse di fascismo al Governo così generiche da dare l’impressione di una vuota liturgia della contestazione; e il dissenso è congestionato tra questi eccessi isterici di nostalgia folklorizzante e l’opposto apatico della disillusione. Viceversa è giunto il momento di concretizzare; e forse l’improponibilità di questo decreto è più inevitabile dell’ossimoro nel quale – tra disincanto verso il futuro e nostalgie folklorizzanti – affogano da anni le proteste.

Ma, anche separando il progetto dalla protesta, ci vuole motivazione; mentre questo movimento ha un problema fondamentale che è correlato a una carenza di motivazione: non ha un nome. La Pantera prese il nome da una concomitanza di cronaca: l’atto naturalmente selvaggio di un animale in ribellione da una gabbia. Invece questi sono i giorni del gesto di rivolta di Mario Monicelli, che ha deciso in una primordialente pagana manifestazione di volontà di togliersi la vita, conto un biopotere che mira a controllare i corpi, negando il diritto alla morte. Monicelli sta tra Eluana Englaro e L’Aquila, tra la costrizione in vita che si impose su un corpo di ragazza inanimato e l’alienazione dello spirito di un luogo ferito, privato di autonomia, costretto all’eterodirezione. Entrambe segni di una cura finalizzata alle macchine più che alla guarigione, al profitto più che all’esistenza. Monicelli ha detto no, e infine ha dato un riscatto alla sua “Armata Brancaleone”, ha sciolto l’incantesimo dell’ineluttabilità della sconfitta ristabilendo un principio che volle far raccontare ai suoi eroi imperfetti: l’umanità. Recuperare la possibilità del gesto è segno di autonomia, ma l’autonomia viene da una premessa: la capacità di darsi un nome, ossia un senso. Non so come si vorrà chiamare o se riuscirà a trovarsi un nome, ma spero che quest’ “Armata Brancaleone” vincerà; perché a volte si può anche vincere, e bisogna ricordarselo.

Si può vincere se si mette a fuoco la situazione, evitando gli opposti eccessi tra illusione e frustrazione, perché all’inganno non si risponde con l’illusione né al trionfalismo con la frustrazione. Oggi si può circostanziare la rivolta su un principio sostanziale di concretezza. Quando si scende in piazza, per L’Aquila o per l’Università, non si scende in piazza solo per L’Aquila o solo per l’Università, né per astratti ideali: si sta difendendo il pubblico dalle privatizzazioni, affinché possa tornare a ciò che il pubblico dovrebbe essere: un bene collettivo. Si sta tutelando la società dall’economia, perché il fondamentalismo capitalista non solo sottrae risorse alla collettività, ma le distrugge.

L’Aquila, 6-12-2010

Antonello Ciccozzi