Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

lunedì 12 luglio 2010

DAL SENSAZIONALISMO MIRACOLISTICO AGLI STEREOTIPI NEORAZZISTI 10-07-2010

una serie di considerazioni sulla repressione governativa della manifestazione della popolazione aquilana a Roma del 7 luglio 2010, con una rassegna delle ragioni locali riguardo l'espressione di dissenso.

(pubblicato su:
- "Carta settinamale" del 16 luglio 2010
- http://www.abruzzo24ore.tv/news/Dal-sensazionalismo-miracolistico-agli-stereotipi-neorazzisti/17568.htm)

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DAL SENSAZIONALISMO MIRACOLISTICO AGLI STEREOTIPI NEORAZZISTI: PER UN’ANATOMIA DEL SISTEMA DI PROPAGANDA GOVERNATIVA INTORNO ALL’EMERGENZA AQUILANA



NOGLOBAL E POLIZIOTTI LEGITTIMAMENTE INFILTRATI TRA COMUNI CITTADINI CONTRO IL GOVERNO


Certo, c’erano i “noglobal” alla manifestazione dei terremotati aquilani. C’erano. Saranno stati il due o tre per cento dei manifestanti, erano insieme a tutte le altre categorie socio-culturali che compongono la varietà civile di una città. A spingere contro i reparti antiterrorismo che bloccavano illegittimamente il passaggio di una manifestazione autorizzata c’erano anche i “no global” aquilani; sono i più abituati a un trattamento che nessuno si aspettava e perciò erano “in prima linea”, un metro o due poco avanti rispetto a casalinghe, pensionati, e anche a poliziotti aquilani. Poliziotti esasperati come gli altri loro concittadini. Poliziotti contro poliziotti, questo è il dato più singolare di quel giorno: non ci poteva essere manifestazione più trasversale di quella con la quale migliaia di aquilani sono andati a Roma il sette luglio 2010 per chiedere equità e diritti, prendendo qualche manganellata che puzza tanto di prova per l’estensione alla società civile di codici di regime fondati sul linguaggio del manganello, solitamente riservati all’antagonismo eversivo.

Tuttavia i manganelli non sono la cosa peggiore: L’Aquila manifesta il suo dissenso ancora una volta, da un anno; e, ancora una volta, la città continua a subire pratiche di disinformazione e gravi stereotipi offensivi che sempre di più puzzano di neorazzismo. Perciò, ancora una volta va precisato che, da subito dopo il terremoto, abbiamo assistito a una serie di processi massmediatici di controllo dell’opinione pubblica sull’evento che vale la pena ripercorrere elencandoli in un’anatomia sintetica degli elementi che compongono il sistema di propaganda che determina la narrazione governativa dell’emergenza aquilana; visto che certi fatti - se raccolti in sequenza - fanno un altro effetto.




L’ESPROPRIAZIONE SIMBOLICA DELL’EVENTO


Deve essere chiaro che tra Potere e interpretazione vi è una sostanziale identità: il Potere è il potere di attribuire senso agli eventi; e a L’Aquila la manipolazione della catastrofe inizia dal momento in cui la città è privata della possibilità di dare senso all’evento, in un’espropriazione simbolica che è la premessa per il controllo del processo in generale.

L’espropriazione simbolica dell’evento è avvenuta a partire dall’abbassamento della magnitudo a 5.8 gradi Richter, rispetto alla media di 6.3 gradi Richter dichiarata degli istituti sismologici di tutto il mondo. Al di là della diatriba tra magnitudo Momento e Richter, l’informazione italiana si è fatta con il valore 5.8; e l’idea di una magnitudo bassa fomenta l’idea che i danni ci siano stati per colpa delle costruzioni fatte male, per colpa degli aquilani: “chi è causa del mal suo pianga se stesso”. L’attribuzione di colpa a livello locale esonera simbolicamente lo Stato da oneri di sostegno e da responsabilità concrete della Commissione Nazionale Grandi Rischi.

L’espropriazione simbolica dell’evento si è prefigurata attraverso le rassicurazioni disastrose - totalmente infondate dal punto di vista scientifico - comunicate dalla Commissione Nazionale Grandi Rischi prima del sisma alla popolazione aquilana (che indussero la cittadinanza a restare al letto, concausando un alto numero di vittime, che per puro caso non è stato molto maggiore).

L’espropriazione simbolica dell’evento si è consolidata attraverso la denominazione “terremoto d’Abruzzo” favorita da politici vassalli del governo Berlusconi, probabilmente finalizzata al tentativo di profitto della Regione contro le zone realmente terremotate. Basti pensare che il presidente della regione Abruzzo Chiodi ha da subito dichiarato che “il terremoto riguarda tutto l’Abruzzo”; e che il neoeletto presidente della provincia dell’Aquila, Del Corvo, ha scritto, nella parte di programma elettorale che non ha copiato (come ha dovuto ammettere), che: “la ricostruzione non è soltanto un’esigenza delle aree del cratere, perché tutta la Provincia soffre per problemi che risalgono a prima del terremoto”. Entrambe i politici sono Berlusconiani e non residenti nelle aree terremotate. Il dubbio è forte e lecito.




LA SPETTACOLARIZZAZIONE PROPAGANDISTICA DEGLI AIUTI


La trovata sensazionalistica del “miracolo aquilano” induce a pensare all’intervento di aiuto come un fenomeno inedito per modalità ed efficienza, mentre la storia della civiltà occidentale si misura da secoli con pratiche di aiuto portate verso i luoghi colpiti da catastrofi naturali; pratiche storicamente dettate a partire dal principio fondativo dell’unione dei battezzati nel corpo mistico di Cristo. Se c’è una costante è l’aiuto, quello che varia sono le forme storiche, dove la differenza la fa il grado di sviluppo tecnologico, assai meno la disposizione morale dei poteri costituiti che presiedono agli interventi. Il “miracolo” è una finzione propagandistica che inizia proprio nella pretesa di unicità storica dell’azione istituzionale.

La politica della carità messa in campo con lo spettacolo della beneficenza ha saturato l’opinione pubblica riproducendo immagini ridondanti di aiuto, che danno un’impressione risolutiva distogliendo dalla reale proporzione delle necessità economiche (dato che per la ricostruzione vera saranno necessari molti miliardi di euro, non è onesto propagandare, ad esempio, un milione di euro raccolti da uno stuolo di cantanti, che tra l’altro si celebrano con la beneficenza, come se fossero un aiuto fondamentale, risolutivo; come per dire “adesso i soldi li avete, non vi lamentate”). Non servono briciole ossessivamente amplificate da strategie di spettacolarizzazione in prima serata; ma, come negli altri terremoti, c’è bisogno di aiuti di Stato adeguati e senza eccessi sensazionalistici. E’ in sé riprovevole fare di un’emergenza sociale uno spettacolo televisivo.

La pretesa di parlare sistematicamente di “ricostruzione esemplare”, per designare l’installazione di abitazioni di emergenza su costosissime e inutili piastre antisismiche imposte dalla Protezione Civile (che le aveva progettate), propinando all’opinione pubblica l’idea di una situazione risolta, quando la città è ancora del tutto annientata.

L’idea che le case imposte dal Governo siano incommensurabilmente migliori delle soluzioni d’emergenza adottate in passato si fonda sulla censura di una miriade di altre tipologie costruttive prefabbricate messe a disposizione dalle attuali tecniche di housing, altrettanto sicure, veloci e confortevoli e più economiche; e soprattutto si regge su una volgare modalità destoricizzazione messa in atto nella valutazione dell’edilizia d’emergenza usata in altre epoche (e quindi in base a livelli inferiori di sviluppo delle disponibilità tecnologiche): in sostanza è come paragonare una Cinquecento di oggi con una di quarant’anni fa. Da secoli i governi intervengono sui luoghi terremotati costruendo case di emergenza. Non si discutono le case, in un banale e inammissibile “prendere o lasciare”, ma l’imposizione di una tipologia costruttiva, i suoi costi e i sospetti di speculazione sugli aiuti. L’alternativa non è solo tra le case del “progetto c.a.s.e.” e i containers dell’Irpinia (va notato infatti che questo modo di ragionare grettamente binario è la cifra della logica che regge qualsiasi ideologia dittatoriale: è l’esclusione di terze possibilità la premessa per l’imposizione assolutistica di scelte opinabili).




LO SFRUTTAMENTO DEGLI AIUTI PER FINALITA’ DI PROFITTO


In tal senso l’aspetto più eclatante è dato proprio dal costo spropositato dell’edilizia d’emergenza: quasi tremila euro a metro quadro (l’ing. Calvi della Protezione Civile, il progettista, dichiarò in televisione 2400 euro a metro quadro, ora dice 1300, da molte fonti si deducono oltre 2800 euro a metro quadro). Questo pone il punto del profitto ottenuto attraverso a tragedia di migliaia di persone, grazie a costossissime forme abitative imposte millantandole come unica soluzione, tra molte scelte possibili assai più economiche ma occultate. Edifici costruiti sfruttando i soldi della beneficenza e della Comunità Europea; e la manodopera a basso costo e senza diritti consentita dall’emergenza. Una manna per i fortunati imprenditori che hanno potuto accedere agli appalti. Una casa così (in comodato d’uso, non regalata, come spesso pensano gl’italiani) può sembrare bella, ma se si guarda bene il rapporto qualità/prezzo di questi condomini in cartongesso, lo scempio paesaggistico prodotto in almeno metà dei diciannove siti, e le alternative che si sarebbero potute praticare, è disgustosa. Questo supposto “miracolo” poteva costare tre volte di meno e dare un tetto a tutti. Invece si è scelto di massimizzare il profitto, non l’utilità sociale; ecco cosa c’è dietro il miracolo. Deve essere chiaro che un alloggio d’emergenza dopo una catastrofe naturale non è un miracolo, ma una forma di realizzazione di una prassi storica antica come la nostra civiltà (e su cui, in ultima analisi, è la civiltà stessa che si misura, in opposizione alla barbarie e alla tirannia).

Poi, più in generale si deve accennare ai costi enormi della macchina della Protezione Civile, costi articolati in una quantità di livelli e forme, dei quali - a cominciare da particolari minimi come le giacche a vento in dotazione delle truppe - da più parti è stata dimostrata l’enorme plusvalenza ottenibile con il pretesto emergenziale. Va ripetuto che - ad un anno dal sisma - i soldi spesi per L’Aquila provengono quasi esclusivamente dai fondi messi a disposizione dalla Comunità Europea, e dalla beneficenza di singoli cittadini e di enti pubblici. Il Governo finora non ha speso - se non in minima parte - soldi di Stato, e questa è la differenza reale rispetto agli altri terremoti. Troppi indizi lasciano già pensare che il Governo ha finora approfittato della beneficenza degli italiani e dei fondi europei per drenare profitto attraverso catene di mediazione gestite da soggetti affiliati al potere costituito, in cui si assiste alla compresenza ambivalente di aiuto e parassitismo, di solidarietà e sciacallaggio, di sostegno e profitto. Il punto è che un governo che si dichiara “democratico” non dovrebbe permettersi di offendere una città attraverso pratiche di postcolonialismo intrastatale finalizzate alla speculazione e alla propaganda, che si innestano mimetizzandosi su processi di aiuto umanitario; e non dovrebbe imporre tali pratiche con un ricorso sistematico alla propaganda, alla censura, allo stereotipo.




LA MANCANZA DI EQUITA’ RISPETTO AD ALTRI DISASTRI NATURALI ITALIANI


A quanto pare non se ne parla proprio di concedere a questo terremoto una tassa di scopo o altre forme di prelievo stabili dalle casse dello Stato, come è avvenuto per le altre catastrofi simili. L’Aquila è - al passo con i tempi - una città precaria, ingabbiata in una ricostruzione co.co.co. finalizzata prima al profitto di soggetti esterni che al bene del luogo. Per L’Aquila finora il Governo ha deciso che da parte dello Stato ci sono lotterie, gratta e vinci, e cantanti in odor di beneficenza (e in cerca di gloria).

Le agevolazioni fiscali concesse ai terremotati costituiscono una pratica plurisecolare di aiuto, basti pensare che trecento anni fa a seguito di un terremoto disastroso il viceré riconobbe agli aquilani l’esenzione dalle tasse per 12 anni, senza restituzione. Ora a L’Aquila tutti ricordano che per il terremoto dell’Umbria-Marche è stata accordata una sospensione per 10 anni con una restituzione del 40% in 120 rate; mentre la richiesta di restituzione fiscale per gli aquilani è stata fissata al 100% dopo un anno dal sisma, da restituire in 5 anni. Solo dopo la protesta romana ci siamo assestati ad ora al contentino di passare da 5 a 10 anni. Un contentino che suona come offesa. E’ in tal senso che a L’Aquila si chiedono equità e diritti, cose ben lontane da parossismi dettati dalla disperazione.

Qualcuno ha detto che durante gli altri terremoti non c’era la crisi economica di oggi, quindi il paragone non sarebbe lecito. A parte che si potrebbe obiettare che la crisi dovrebbero pagarla i ceti più abbienti e non chi subisce disastri naturali, c’è in questo caso un particolare scabroso e inaccettabile: per il recente alluvione di Alessandria la sospensione delle tasse comporterà la restituzione del 10% in 10 anni. Altro che Nord virtuoso e Sud Cialtrone.

SULLO STREOTIPO NEORAZZISTA CHE OFFENDE UNA CITTA’ FERITA

Troppo spesso politici di regime e organi d’informazione filogovernativa insistono con stereotipi riconducibili allo schema del “Sud cialtrone” contrapposto al “Nord virtuoso”, attribuendo tutta la colpa dei problemi attuali all’inefficienza dell’amministrazione locale, in un dispositivo di accusa scagionante del Governo e dei suoi affiliati (sia chiaro: ci sono problemi che riguardano l’amministrazione locale, ma il riconoscerli è altro rispetto all’assolutizzarli). E L’Aquila si ritrova dentro questa becera e del tutto manichea ripartizione di moralità. Ancora una volta salta fuori lo stereotipo del paragone con il Friuli. Da tempo si sente che a gli aquilani subito dopo il terremoto erano “come i friulani, che si rimboccano le maniche e si danno da fare”, mentre poi sarebbero diventati “come gl’irpini, che stanno con le mani in mano e pretendono aiuti”. È proprio la pigrizia mentale insita in questo ridondante ricorrere a una tematica fissa che è il primo indice di stereotipia.

Ancora una volta i cittadini aquilani devono sorbirsi questa comunicazione del tutto ingiuriosa. Il 9 luglio il quotidiano “Il Giornale” ripercorreva per l’ennesima volta questo stereotipo attraverso la gretta generalizzazione neorazzista secondo cui “le popolazioni colpite reagiscono in modo differente”. Questo è troppo. È da un anno che telegiornali come il tg1 fanno sistematica disinformazione e quotidiani come “Il Giornale” sfociano puntualmente nella diffamazione seminando stereotipi neorazzisti. Si può tollerare tutto questo? Fino a che punto? O è il momento di sollecitare interrogazioni parlamentari sulla legittimità di questa disinformazione ormai sfociata nel dileggio? Si può offendere sistematicamente una città gravemente ferita per difendere ciecamente l’operato di un Governo? È questo il livello di civiltà della Nazione?

Basta. Deve essere chiaro che, fuor di opinione, in Friuli - per danni al tessuto urbanistico assai meno gravi di quelli con cui deve ancora iniziare a fare i conti L’Aquila - è stato di fatto speso l’equivalente di circa venti miliardi di euro; soldi messi a disposizione attraverso modalità di accesso chiare, tramite finanziamenti quinquennali, dallo Stato alle aree terremotate, senza offensive spettacolarizzazioni della carità. A L’Aquila sono stati promessi vagamente meno della metà dei soldi avuti realmente dal Friuli. Questo per quanto riguarda la disponibilità di fondi.

Invece per quanto riguarda la governance, si ha questa differenza: mentre a L’Aquila si subisce da subito dopo il sisma un centralismo che non è esagerato definire dittatoriale, basato sull’imposizione di strutture commissariali esterne (anche ora che l’emergenza è finita e dovrebbe iniziare la ricostruzione il “commissario” viene da fuori delle aree colpite ed è uno “yesman” di Berlusconi), in Friuli fu concessa una concreta autonomia nel processo di ricostruzione. In merito ricordo che nel giugno del 2009, poco dopo il sisma, venne a L’Aquila per un convegno un sindaco friulano che fu protagonista della ricostruzione, e che ci ricordò solennemente il principio da loro usato: “questa è la nostra terra, e i primi a comandare dobbiamo essere noi” (Franceschino Barazzutti, sindaco di Cavazzo Carnico dal 1977 al 1995).

Perciò, per cortesia, che il Governo tratti L’Aquila come il Friuli: dateci i soldi per ricostruire (come diritto costituzionale astraibile da almeno sette articoli, e come valore storicamente sancito da una prassi di civiltà plurisecolare) e toglieteci i commissari esterni. Le decisioni per L’Aquila le deve prendere chi ci vive; certo ci gioverebbero consulenze di esperti da tutto il mondo, ma dobbiamo scegliere noi cosa è meglio per noi. Quindi che nessuno dica più che in Friuli “si sono rimboccate le maniche”, per misurare noi aquilani: se la vogliamo mettere sul provocatorio di questo genere di comparazioni ingiuntive penso sia più lecito dire che “in Friuli sono stati riempiti di soldi che hanno potuto spendere come volevano”. A L’Aquila molti temono che servirebbero il doppio dei soldi del Friuli, mentre ne sono stati promessi a chiacchiere meno della metà. Tutti sappiamo che sono tempi difficili, ma appunto per questo non si può restare indifferenti riguardo i troppi sospetti sul fatto che i soldi siano stati spesi male e che l’emergenza sia stata un pretesto per il profitto.




SEMPRE DI PIU’ IL RE E’ NUDO


I governi durano qualche anno, i poteri istituzionali si riciclano al massimo per qualche decennio, mentre le città attraversano la storia. Chi pensa che L’Aquila sia solo un ammasso di case pericolanti non capisce che le città non sono fatte solo da mura e tetti: le città sono fatte da idee. Chi oggi prende le misure politiche per L’Aquila sarà domani misurato dalla storia per quello che ha fatto, e potrebbe ritrovarsi con una maledizione addosso. C’è un briciolo di umanità in Tremonti, l’inarrivabile e avaro custode delle casse dello Stato? Come stanno Bertolaso e Berlusconi dopo aver millantato miracoli sulle disgrazie di migliaia di persone? Sempre più paiono dei reietti, dei latitanti di Stato, che non possono più stare in mezzo alla gente vera, ma devono difendersi con la distanza, la finzione di simulate passerelle mediatiche.

Quanto è durata l’onda populista di consenso estorta dall’emergenza aquilana attraverso la finzione sensazionalistica del miracolo? Si chiedono queste persone come saranno ricordate dai posteri? e che eredità morale lasceranno alla loro discendenza? Le finzioni durano finché alla massa fa comodo credere ad esse; ma a chi fa comodo continuare a credere a questi nostri attuali sovrani taumaturghi? La gente che spingeva sotto il caldo estivo di un assolato pomeriggio romano era più reale del re, e l’Italia sempre di più guardando L’Aquila si vede allo specchio. La vergogna delle manganellate su cittadini terremotati ha fatto il giro del mondo, e la diagnosi di disperazione - che, con dubbia benevolenza, ci ha attribuito qualche parlamentare anche dell’opposizione - non può essere il pretesto per edulcorare, ma seguitare paternalisticamente a nascondere, certe ragioni.

Antonello Ciccozzi

L’Aquila, 10 luglio 2010

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