Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

domenica 13 giugno 2010

IL VALORE DEI TERMINI: "MANCATO ALLARME" O "RASSICURAZIONE DISASTROSA”? 13-06-2010

testo pubblicato su:

http://www.abruzzo24ore.tv/news/Mancato-allarme-o-rassicurazione-disastrosa/17103.htm

http://ilcapoluogo.com/site/Blog/Il-Capoluogo-dei-lettori/Il-valore-dei-termini-mancato-allarme-o-rassicurazione-disastrosa


MANCATA DEFINIZIONE

Al fine di inquadrare qualsiasi questione in modo efficace occorre definirla attraverso termini appropriati. Usare le parole giuste, e scegliere quelle migliori, è un prerequisito per una comunicazione efficiente. Questa generica affermazione può essere utile per prestare attenzione ai processi di formazione di senso comune sull’evento catastrofico che ha colpito la città dell’Aquila: siamo di fronte a una continua scrematura di termini cardinali che emergono dallo tsunami di discorsi che ha investito il luogo dopo il terremoto per diffondersi a livello di senso comune come categorie di orientamento dell’opinione.
Questi termini si ritrovano spesso polarizzati intorno a opposizioni semantiche che delineano posizioni e orbite di consenso/dissenso rispetto alla percezione dell’evento: ‘Terremoto l’Abruzzo’/‘terremoto dell’Aquila’, ‘5.8 magnitudo Richter’/’6.3 magnitudo Momento’, ‘miracolo’/’profitto’, ‘efficienza/corruzione’, e via dicendo. Questi termini producono definizioni di base che fondano visioni condivise o disapprovate, ma - soprattutto nel caso dell’Aquila a un anno dal sisma che l’ha annientata - possono prestarsi alla costruzione di stereotipi dannosi per la comunità, in quanto stigmatizzanti.
Questa premessa per esplicitare alcuni aspetti sottintesi ma cruciali intorno una questione: siamo sicuri che la definizione in termini di “mancato allarme” della comunicazione attuata dalla Commissione Nazionale Grandi Rischi una settimana prima del sisma sia efficace? La categoria del “Mancato allarme” è ormai entrata nell’uso comune locale quando serve una sintesi minima per descrivere l’operato della Commissione; è un’espressione che si sente dire per strada, che si legge sui siti dei quotidiani online e sui blog di chi in vario modo fa cittadinanza attiva. Dopo oltre un anno dalla tragedia, e questo è più importante, tutti i giornali titolano che la Procura indaga sul “mancato allarme” e formula l’ipotesi di accusa di “omicidio colposo” per sette illustri, potenti e – probabilmente - protetti membri di quella commissione. Comitati, avvocati, cittadini attivi hanno imparato a dire che «la commissione ha previsto un non terremoto», a sottolineare che «e i terremoti non sono prevedibili non si può ipotizzare che non accadrà nulla e sbandierarlo alla popolazione»; purtroppo però non ci si accorge dell’inappropriatezza della categoria del “mancato allarme”, che viene scelta per formulare le ipotesi di reato, ad ora mi pare consistenti nell’accusa di omicidio colposo, difficilmente proponibile. Probabilmente riformulando l’ipotesi di reato in modo più appropriato potrebbe risultare più proponibile un’accusa di “concorso colposo in strage originata da disastro naturale”. Se la questione specifica pertiene ad un ambito giuridico, la definizione dei suoi dettagli riguarda un problema che deve essere affrontato con una serie di premesse di tipo semantico.
Qui bisogna mettere a fuoco un aspetto: la definizione di “mancato allarme” è nel nostro caso errata in quanto produce un significato fuorviante rispetto al referente. Su ciò bisogna essere attenti. ‘Mancato allarme’ significa non (pre)dire che ci sarà un evento nefasto, e questo è totalmente diverso dal (pre)dire che non ci sarà un evento nefasto. Nel primo caso non si evita un esito, nel secondo si aggravano le sue conseguenze. Tutto si gioca sintatticamente a partire dalla posizione della negazione: nel primo caso è in gioco un’assenza di capacità, nel secondo caso è in gioco la presenza di un errore.
Orientare l’opinione pubblica sulla definizione di “mancato allarme” produce un habitat di significati che può togliere incisività alle accuse, incisività necessaria in un percorso di legittima e civile ricerca di “verità e giustizia”; e soprattutto espone la controparte – oltre 300 morti e una città annientata da un sisma che dopo un anno marcisce in mezzo a un arcipelago abitativo di eterotopie di crisi – al solito rischio di essere tacciati di pretenziosità nei confronti delle istituzioni. È per questo che, dato che l’affermazione e l’uso di tale definizione da parte di chi chiede verità e giustizia produce una paradossale forma di auto-disinformazione, penso che potrebbe essere più opportuno sostituirla con quella di “rassicurazione disastrosa”.


LA SITUAZIONE E’ FAVOREVOLE
Procediamo articolando un punto cardinale del dibattito: il terremoto è stato preceduto da un progressivamente crescente sciame sismico dell’estenuante durata di quattro mesi, e una settimana prima della tragedia si riunì all’Aquila la Commissione Nazionale Grandi Rischi, che rassicurò la popolazione in questo preciso modo: «la comunità scientifica conferma che non c’è alcun pericolo, perché c’è uno scarico continuo di energia. La situazione è favorevole». Questo messaggio indusse la maggior parte dei cittadini a restare a casa, anche dopo due forti scosse che si verificarono poco prima del sisma. Tali rassicurazioni hanno contribuito in modo decisivo a produrre un esito nefasto di oltre trecento vittime, che per puro caso (la durata e l’intensità del sisma ha annientato la città senza raderla al suolo, la catastrofe è stata clemente fermandosi sul ciglio del limite della distruzione totale) non sono state 3.000 o 30.000.
Chiariamo un punto: il mancato allarme c’è stato, ma c’è stato di peggio, c’è stata, appunto, una “rassicurazione disastrosa”; questo in quanto tale comunicazione ha informato - in modo superficiale, infondato, fuorviante e letale - la popolazione del fatto che non vi sarebbe stata una catastrofe. Dico “del fatto” in quanto ritengo che l’altisonante scientificità a cui si è appellata - per titolo e per dichiarazione - tale commissione abbia contribuito in modo determinante a conferire alla previsione un’aurea di fattualità in divenire. Il “mancato allarme” c’è stato, senza scomodare presunti o meno precursori come il radon, in termini di consapevolezza della sismicità storica e di una serie di dati statistici e di modelli previsionali; ma ad ammazzare la gente ha contribuito in modo decisivo una “rassicurazione disastrosa”. Tutti i cittadini delle aree colpite hanno avuto notizia di vittime che sono state uccise non solo dal terremoto, ma dalla complicità di una “rassicurazione disastrosa”. Testimoni diretti sanno di gente uccisa che aveva telefonato ai cari un po’ prima dicendo che sarebbe rimasta a casa perché:«hanno detto che il terremoto non fa». Il terremoto è stata una condizione necessaria di morte, ma non sufficiente: per fare uscire la gente dalle case sarebbe stato sufficiente non solo dire “attenzione”, ma anche non dire nulla: in quel modo non si sarebbe minata quella sorta di istintualità culturale sedimentata in loco che, alimentando il dubbio, richiama alla consuetudine tradizionale di uscire di casa dopo scosse forti. È grottesco pensare che il dubbio, il sale della scienza, ha avuto poca possibilità di asilo in quella scientificissima commissione.




E’ COLPA DI NESSUNO

Com’è noto l’astuzia di Ulisse nel definirsi ‘Nessuno’ nei confronti di Polifemo si rivela nel momento in cui quest’ultimo denuncia agli altri ciclopi che nessuno lo ha accecato. Assodato che i termini sono strumenti del linguaggio per costruire definizioni della realtà, e che queste definizioni producono rappresentazioni sociali, può essere opportuno attardarsi in un’altra osservazione di tipo semiologico: nel linguaggio corrente non disponiamo di un contrario puro nei confronti del termine ‘allarmismo’.
Il termine è composto da ‘allarme’ (che significa “segnalazione di emergenza”) e dal suffisso “-ismo” (che significa in questo caso “dottrinarietà”, fissazione immotivata spesso legata ad atteggiamenti collettivi) che insieme delineano un significato di “tendenza a preoccuparsi e ad ingenerare timore verso gli altri in assenza di validi motivi”. E’ proprio il suffisso ‘-ismo’ a conferire la connotazione dell’immotivatezza alla segnalazione di emergenza. Viceversa un termine che significa “segnalazione immotivata di normalità” non c’è: termini come ‘tranquillizzazione’, ‘rassicurazione’ non comportano necessariamente il connotato dell’immotivatezza. Il termine ‘rassicurazionismo’ sarebbe appropriato, ma ad oggi non è in uso, e senza un po’ d’abitudine i termini, specie se compositi, tendono ad avere un senso nebuloso. L’assurdità di questa situazione si rivela proprio ipso-facto nel suo essere indefinibile attraverso una semplice attribuzione terminologica di senso. Il punto è che l’inesistenza dei termini o si supera con un termine nuovo che richiede affermazione, o si evita con la costruzione di termini composti, o si va incontro a uno spiacevole inconveniente: il non riuscire a definire un fenomeno aumenta il rischio di subirne le conseguenze.




UN’INFORMAZIONE SUPERFICIALE, INFONDATA, FUOVIANTE, LETALE

Chiarire una situazione che non ha disposizione una singola parola di uso comune, che sarebbe solo da trovare, ma che è nascosta in qualche punto della lingua già bell’e pronta per descrivere tale situazione in modo appropriato (come si suol dire appunto, consentendo di ridurla “ai minimi termini”), richiede l’esercizio di individuare elementi di valutazione che possano svelarne alla comprensione delle caratteristiche significative, esplicitarne della “proprietà emergenti”. Può essere in merito utile spiegare perché la “rassicurazione disastrosa” prodotta dalla Commissione Nazionale Grandi Rischi è tal qual è proprio in quanto essa comunica un’informazione connotabile come superficiale, infondata, fuorviante, letale. Vediamo meglio ciascuno di questi quattro punti.
La superficialità deriva per prima cosa dalla leggerezza con cui è stata convocata la Commissione: singolarmente il fatto scandalizza poco la massa dell’opinione pubblica italiana, ma come è ormai arcinoto la Protezione Civile era impegnata, in barba al suo nome, a organizzare il G8 in Sardegna, tra sospetti più o meno conclamati di appalti e interessi a cui è approdata a partire da una definizione di emergenza decretata governativamente (pare anche al fine di ampliare i settori di influenza di tale istituzione). E su questo molti indagano, pur non senza difficoltà. Superficialità poiché tale commissione si è riunita in fretta e furia, pare per una mezz’ora, e probabilmente pensando perlopiù ad altro (anche se in città c’è chi sospetta che se ne siano fregati, nell’idea che se il terremoto ci fosse stato sarebbe stata un’occasione in molti sensi, sono supposizioni, ma il dubbio può venire). Come accennato prima, la superficialità rimanda, oltre alla distratta fugacità dell’incontro, anche alla disattenzione nei confronti di una serie di studi sulla sismicità storica, di modelli previsionali, di dati statistici, molti studi già pubblicati e noti in amibito specialistico che avrebbero inequivocabilmente richiamato all’allerta. Proprio questi aspetti sono condivisi con la questione dell’infondatezza, che è, per la precisione, infondatezza proprio rispetto a un piano dichiaratamente autorevole e scientifico.
Se la superficialità del comunicare una previsione trattando disattentamente una serie di parametri sensibili dati da una serie di studi espone all’infondatezza, l’infondatezza, come inesattezza da un punto di vista scientifico si attualizza in pratica nell’affermazione di enunciati come:«i terremoti non si possono prevedere» (espressione ripetuta più volte quei giorni da e attraverso la commissione). Il punto cardinale per comprendere tali aspetti riguarda il trattamento erroneo della categoria della ‘previsione’, rappresentata come una variabile binaria. Ciò non è appropriato quando si è di fronte a processi stocastici. Questo ci riguarda proprio perché un terremoto si configura come singolo evento all’interno di un processo morfogenetico generale che si svolge in tempi lunghissimi e presenta un andamento di tipo stocastico. Un processo stocastico è un tipo di processo in cui gli esiti di un fenomeno sono determinati da una compresenza e da una articolata compenetrazione quali-quantitativa di variabili definibili e di variabili congiunturali, di determinatezza e aleatorietà. Un processo stocastico quanto più è complesso è l’esito di una tanto più densa e articolata compresenza di causa e caso, distribuiti in molteplici forme gaussiane. Per questo un processo stocastico non può essere mai totalmente prevedibile o - in modo complementare e opposto - totalmente imprevedibile; per questo la categoria della prevedibilità non può essere in questi casi grettamente espressa in termini di aut-aut binario. Per questo un valore di probabilità non espresso in percentuale, ma con un “sì” o un “no” secchi è, in tali casi, da considerare errato. Ci dobbiamo a volte ricordare che in natura si sta intorno a pochi processi che succedono o non succedono con certezza assoluta, e dentro un groviglio di processi che hanno una certa probabilità di realizzarsi, e quindi una - speculare e rovesciata - di non realizzarsi.
Invece, questo è un aut-aut, qui non ci sono vie di mezzo: se uno scienziato si esprime pubblicamente nella formalità di una conclusione ufficiale dicendo che «i terremoti non si possono prevedere», allora i casi tendono pesantemente ad essere descrivibili in due opzioni nette: o non ricorda di queste faccende (e allora non è proprio un bene che occupi un vertice istituzionale), o, per qualche oscuro motivo da chiarire, è in cattiva fede. In merito è opportuno ricordare che, da subito dopo il sisma e nei giorni successivi, gli esperti in questione nei loro comunicati orali divulgati massmediaticamente iniziarono a sostituire l’enunciato «i terremoti non si possono prevedere» con quello «i terremoti non si possono prevedere deterministicamente».
Nella previsione dei processi stocastici conta la differenza di complessità tra modello previsionale e sistema osservato, e tale differenza conta come fattore determinante del livello di approssimazione insito nella previsione. La precisione riguarda il tempo di occorrenza e l’intensità dell’evento. Questo punto va compreso, per cui può essere utile spiegarlo con alcuni esempi: la comunità scientifica ha stabilito un nesso causale tra tabagismo e cancro ai polmoni, ma non ha prodotto un modello previsionale che sia in grado di stabilire esattamente dopo quante sigarette una data persona contrae una patologia tumorale. Non può, ma dipende dall’approssimazione della previsione: dire che il sig. Rossi alla 421.234 sigaretta svilupperà una neoplasia è - ad ora e forse anche in futuro - impensabile, in quanto eccessivamente deterministico; ma dire che il sig. Rossi dopo 400.000 sigarette ha una probabilità altissima di sviluppare una neoplasia è altamente plausibile e scientificamente corretto.
Similmente l’affermazione «tra 100 anni in Italia ci sarà un terremoto disastroso» è plausibile scientificamente in quanto si basa su una proiezione induttiva di dati storici, ma è inconsistente perché è data entro un’approssimazione eccessiva. Questo partendo dal presupposto che i terremoti si verificano a causa dello spostamento di placche della superficie terrestre e che questo spostamento provoca periodicamente dei salti di soglia e entro una variazione limitata di intensità, dove – zona per zona - la casualità riguarda il margine di aleatorietà di quel periodo e la forza risultante dall’evento. Ciò rende difficile, ma non impossibile, prevedere il “quando” e il “quanto”, ed è per questo che è praticabile l’allerta in presenza di situazioni di alta probabilità di occorrenza di un evento sismico di probabile alta intensità.
Oppure, seguitando con un esempio derivato dalla situazione post-sismica aquilana, a voler citare, non a caso, un caso locale: Giampaolo Giuliani - il tecnico-ricercatore autonomo che studia la relazione tra la variazione del gas radon e il verificarsi di eventi sismici e che è stato trattato alla stregua di uno sciamano locale di basso rango - sostiene, riassumendo, che 6-24 ore dopo un picco di gas Radon si ha circa l’80% di probabilità che si possa verificare un evento sismico d’intensità proporzionale al dislivello del picco. Senza entrare in merito a polemiche che non riguardano direttamente questa sede si può notare che in una situazione di sciame sismico questo modello è ridondante poiché la presenza media di 2 o 3 eventi udibili al giorno rende l’intervallo si approssimazione (6-24 ore) eccessivo. Sarebbe come mettersi in mezzo a un monsone indiano e prevedere che in una settimana pioverà: in mezzo al monsone è troppo facile, senza lo è meno, e questo fa la differenza in termini di efficacia.
Un altro aspetto della questione è che la presenza di elementi a variazione casuale rende possibile diminuire l’approssimazione delle previsioni solo aumentando la complessità dei modelli. Più i modelli sono complessi più sono precisi. Per le previsioni del tempo si è fatto, infatti negli ultimi anni la ricerca metereologica ha sviluppato, attraverso mastodontici algoritmi di previsione, un livello di attendibilità nel breve periodo altissimo; con i terremoti sarà più difficile in quanto con i tempi lunghissimi della dinamica delle placche tettoniche non c’è la stessa possibilità di verifica empirica che consentono le nuvole. Questo paragone può essere utile a chiarire che certi limiti non rendono obsolete previsioni probabilistiche approssimative; ma soprattutto – specularmente - pongono fuori da qualsiasi pretesa di scientificità previsioni certe dell’assenza del realizzarsi di eventi entri fenomeni che dipendono da una compresenza di causa e caso.
Inoltre c’è da considerare un punto fondamentale che pone una possibilità di distinguere la previsione scientifica da varie arti magico-divinatorie: nella valutazione di un risultato scientifico conta la falsificabilità, basta una falla nella teoria a renderla obsoleta; nel pensiero magico-religioso conta la possibilità di rappresentare i dati che confermano l’ipotesi e di nascondere quelli che la negano. Lo scienziato fa attenzione a ciò che non funziona, il mago lo nasconde, cerca di non accorgersene e di non fare accorgere gli altri, lo occulta. In questo, e dati i risultati, la Commissione Nazionale Grandi Rischi mi pare assuma più le sembianze di una cricca di tele-maghi che cercano da mesi di nascondere una divinazione catastrofica giocando sulla distrazione di effetti speciali vari (i “miracoli” della “ricostruzione”) e cambiando le carte in tavola (il verbale della qui menzionata Commissione, secondo la rivelazione clamorosa del professor Enzo Boschi, uno dei suoi membri, scritto vergognosamente una settimana dopo la riunione, ossia una manciata di ore dopo il sisma).
La questione della gravissima auto-accusa (in quanto prodotta da un membro interno alla commissione) della redazione postuma del verbale apre all’ipotesi che con l’ufficializzazione di questo documento si sia cercato di reinterpretare, nei limiti del possibile ossia del plausibile, la rassicurazione disastrosa date alla popolazione. Non potendo più fingere si cerca di mettere una pezza che salvi capre (gli scienziati) e cavoli (le dichiarazioni), in questo modo: ribadire l’impossibilità della previsione. Infatti il punto nodale del comunicato risiede nella dichiarazione di Barbieri, che sostiene che:«non c’è nessun motivo per cui si possa dire che una sequenza di scosse di bassa magnitudo possa essere considerata precursore di un grosso evento». Quest’affermazione cerca di tessere un filo di coerenza con quanto fu dichiarato in sostanza prima del sisma (“il terremoto non ci sarà), ma indietreggia rispetto alla nefasta prescrittività delle dichiarazioni date alla popolazione, ossia si ferma alla valutatività, al “mancato allarme”, cercando sottilmente di depotenziare l’errore attraverso una dichiarazione di presunta impossibilità di previsione. Tuttavia, a vedere bene, anche l’affermazione riportata a verbale è scientificamente scorretta, proprio per l’uso inadeguato della categoria ‘probabilità’ spiegato poc’anzi, attuato rispetto alle proprietà fenomeno in esame (un terremoto). Ossia, sarebbe stato appropriato asserire: «non c’è nessun motivo per cui si possa dire che una sequenza di scosse di bassa magnitudo possa essere considerata precursore CERTO di un grosso evento», ma così si sarebbe persa la possibilità di arroccare la propria credibilità sulla presunta impossibilità totale (ossia fuor di probabilità) della previsione.
Se sulla scientificità dell’approccio di Giuliani ci sono molti dubbi da chiarire (ma tutti sanno che un aumento di radon può essere correlabile probabilisticamente al verificarsi di un evento sismico) sulla non scientificità della comunicazione - sia orale che scritta, sia previa che postuma - data dalla commissione di scienziati che ci ha detto di stare al letto mi pare che i dubbi siano, a ben vedere, assai difficilmente rilevabili. Questo lo dico da cittadino, profondamente indignato. Se certi dubbi si rivelassero veri, e mi pare altamente probabile, penso che di fronte a un simile spettacolo di blasonatissima miseria umana è meglio fare attenzione; per cui usare i termini appropriati diventa non solo opportuno, ma necessario; sempre che ci si voglia difendere dall’escrementizia attitudine a scaricare le colpe in loco (l’offensiva versione secondo cui un “terremotino” avrebbe causato tanti morti solo per colpa di case costruita male) per esonerare le istituzioni nazionali da responsabilità che paiono ogni giorno sempre più nitide.
Però il mettere su un piatto della bilancia la Commissione e sull’altro Giuliani non ce la dice tutta: non ce la dice tutta perché c’è di peggio. In tal senso un altro esempio può essere opportuno per chiarire ancora meglio la natura di questi processi e i sistemi di comprensione che l’uomo ha da tempi immemorabili messo in atto nel tentativo di prevederli. È noto che nei luoghi ad alta sismicità, proprio come esito della periodicità degli eventi, si è sviluppato nel corso della storia un serbatoio di saperi tradizionali che vede negli animali domestici, o meno spesso anche selvatici, una possibilità di uso nella funzione di precursori di eventi sismici.
Si tratta di usi folklorici che però possono essere intesi in termini di scientificità inconsapevole giacché si basano su un deposito tramandato di casi empirici (la trasmissione a mezzo di memoria orale di eventi remoti in cui prima di un terremoto determinate specie hanno mostrato dei segni di agitazione) e su una implicita premessa di tipo induttivo (se è successo finora può succedere ancora). È questo che fa di tali procedure degli esempi di folklore scientifico. Sono esempi ossimorici perché, ovviamente, non si tratta di procedure totalmente razionalizzate, ma di pratiche affidate a una disposizione sensibile data dal tramandare intergenerazionalmente dal trasmettere interlocalmente una serie di esperienze dirette e indirette.
Se in Giappone è attualmente documentato il caso diffuso di famiglie spesso benestanti che, avendo spazio domestico a disposizione, allevano in casa un esemplare di capra adibito proprio a tale funzione; a L’Aquila va in questo discorso assolutamente ricordato che il sei aprile 2009 una anziana signora di Roio si è salvata perché, nonostante avesse ricevuto gli inviti a stare tranquilla ripetutamente comunicati dai nostri scienziati attraverso la televisione, decise di non considerarli attendibili, in quanto preferì prestare ascolto all’agitazione eccezionale mostrata dalle sue galline; per cui quella notte uscì di casa, che in tal modo, quando alle 3 e 32 crollò a causa del sisma, non poté seppellirla viva. Tutto questo vuol dire che la previsione della Commissione Nazionale Grandi Rischi si è rivelata falsa alla prova dei fatti, mentre vide bene la signora Maria di Roio a dare ascolto alle sue galline.
A voler ridurre tutto alla semplificazione della bilancia abbiamo su un piatto - quello dell’errore - i nostri sette esperti interpreti di una secolare tradizione di scienza ufficiale, e sull’altro – quello dell’ipotesi confermata dai fatti – l’inconsapevole e spontaneo folklore scientifico della signora Maria con le sue galline. Se è indubbio che progresso scientifico ha dato al genere umano grandi opportunità (seppur esponendolo a grandi rischi, tanto per prendere in prestito un termine fatale) ritengo difficile che le illustri personalità di questo cammino - da Archimede ad Einstein, passando per Galileo, Newton e tanti altri - si sentirebbero in buona compagnia se accostati agli esperti della Commissione che abbiamo avuto la fortuna di ricevere a L’Aquila con il compito di proteggerci. Credo che avrebbero preferito di gran lunga la compagnia delle galline a quella di queste «massime autorità scientifiche del settore sismico, in grado di fornire il quadro più aggiornato e affidabile di quanto sta accadendo» (e questi sono i titoli precisi che recita il verbale redatto da essi stessi di cui si diceva poco sopra).
Causa e caso quindi; fattori indistricabilmente compresenti in molti processi, tra cui i terremoti; ed è stato anche per questo che in migliaia a L’Aquila si sono salvati da edifici che sono usciti dalla catastrofe lesionati al limite del cedimento; edifici che, secondo il parere degli esperti (ma stavolta non quelli della Commissione), mediamente avrebbero retto una manciata di secondi in più, o qualche decimo in più di magnitudo, prima di crollare. E non perché costruiti male, ma per, ossia a causa della violenza della scossa, in relazione alla sua poca profondità e alla concomitanza dell’epicentro con la città. Già, si è fermato il terremoto, a un certo punto si è fermato, appena in tempo, per molti, migliaia di vite appese a un filo, anche per la complicità delle fandonie di questa commissione. E quella notte, nell’ipotesi puramente abduttiva che sorregge coloro che, per fede verso il sacro, credono in un mondo dominato da forze soprannaturali, in quel mezzo minuto molte anziane donne pregarono dentro il letto che saltava nella stanza, fra i mobili e i calcinacci che cadevano ovunque. Pregavano al buio invocando l’intercessione di sant’Emidio, il protettore - sacro stavolta non civile - dal terremoto, lo imploravano disperate affinché fermasse il sisma. Molte di queste credenti si sono salvate, e attribuiscono il caso all’intercessione del santo, qualcuna è morta, perché, sempre secondo un certo modo di vedere il mondo, la causa va attribuita al fatto che sant’Emidio non è arrivato in tempo.
Se la religione riguarda un discorso non pienamente commensurabile rispetto a quanto qui si scrive, queste parole servono a questo discorso per ricordare un episodio legato al sacro e ai terremoti: a causa della distruzione totale di Avezzano nel terribile terremoto del 1915, la città decise di sospendere la solenne venerazione che tributava fino ad allora verso il santo; insomma decise di rimuoverlo, perché, secondo l’interpretazione popolare sancita poi dalla decisione delle istituzioni ecclesiastiche locali, aveva sbagliato. Essendo laico mi fermo a un accostamento a questo punto evidente, e mi chiedo come mai a L’Aquila c’è chi ancora tributa secolare e certa venerazione verso dei soggetti che destano enormi dubbi di cialtroneria e corruzione. La risposta che mi dò riguarda il fatto che, appunto, il terremoto aquilano ha lasciato molti vivi; e - similmente a quanto accade nelle guerre e all’opposto dell’allegoria della “livella” - molti di quei vivi hanno fatto e stanno facendo fortuna. Saranno questi per lo più gli ultras di certe persone. Certo, ci può essere dell’altro, ma oltre all’egoismo interessato, alla codardia, a un’ingenuità da “sindrome di Stoccolma”, alla semplice idiozia non riesco a trovare ragioni per certi eccessi di riconoscenza.
Dopo questo percorso tra malattie, terremoti, gas precursori, animali avvisatori, maghi, e santi, profeti, cialtroni e malfattori, forse utile per approfondire un po’ le vicende attraverso cui certi processi che mescolano causa e caso entrano nelle vite di chi ha vissuto quei momenti, è il caso di dirlo, “sulla propria pelle”, è il momento di riallacciarci al discorso specifico sui quattro connotati principali correlabili a questa “rassicurazione disastrosa”. In tal senso si può concludere dicendo che dopo la superficialità e l’infondatezza l’effetto è a catena: la presunta scientificità di questo delirio divinatorio è stata il marchio, la garanzia di qualità, la proprietà che l’ha reso fuorviante una volta che esso è stato comunicato alla popolazione aquilana: nella mimesi della cialtronaggine attraverso un ammantamento di autorevole e solenne scientificità una fandonia è stata spacciata come dogma; e ciò - entro le condizioni fatali che si sono verificate - ne ha fatto un’arma letale.




OCCORRE ESSERE ATTENTI

In questo sisma, nel ruolo di terremotati, la parte che ci tocca è quella di essere espropriati, della città, dei diritti che hanno avuto gli altri terremotati, della possibilità di dissenso; dove le nuove e costosissime case date in comodato d’uso a una minoranza di sfollati sussumono propagandisticamente speculazioni, malfunzionamenti e sciacallaggi vari, dove è bastato riaprire duecento metri di strada per dire che il centro storico era riaperto, dove si è parlato grottescamente di “miracoli” e di “ricostruzione” nascondendo la realtà di una città disastrata. Questi “espropri materiali” si servono di una serie precisa di “espropri simbolici”. Si tratta di espropriazioni nel linguaggio che, premessa occultata ma necessaria alla privazione di autonomia, si attuano per mezzo di definizioni che sono fuorvianti e legate tra di loro da un rapporto di consequenzialità: abbassare la magnitudo, colpevolizzare un’edilizia giudicandola inadeguata, deresponsabilizzare una commissione di Stato che invece di proteggere ha rassicurato, un’istituzione che ha preceduto un Governo venuto – a volerla descrivere con grossolana sintesi - a soccorrere comandando, ossia non ad aiutare mettendosi a disposizione, ma a impartire unidirezionalmente disposizioni, certo per aiutare, ma anche per aiutarsi. Anche il nome hanno provato a toglierci di questo terremoto: non “terremoto dell’Aquila”; per mesi e mesi è stata imposta la denominazione “terremoto d’Abruzzo”, e in tal modo ancora si chiama il decreto Governativo per il sostegno alla popolazione terremotata (con un nome del genere a livello Regionale aumenta la possibilità di disporre arbitrariamente dei fondi per spalmarli su tutto il territorio, come pare abbiano provato a fare in questi mesi, per più volte, quelli che ci comandano).
Se vogliamo riappropriarci del nostro diritto di esistenza locale dobbiamo comprendere che il primo strumento per l’autonomia è il linguaggio. Autonomia significa darsi il nome, ossia sviluppare una capacità auto-centrata di attribuzione di senso al mondo; questo è il solo antidoto per evitare di subire supinamente processi di etero-direzione. Il mondo si (ri)fonda a partire dalla denominazione. E le città non si (ri)costruiscono (materialmente) se prima non si (ri)fondano (simbolicamente). Chi vive in un mondo quantitativo, retto dai tempi miopi dell’economia e della politica non coglie la differenza insita in qualità sociali e culturali che richiedono tempi lunghi. Comunque sarà la storia a giudicare la verità di fatti che oggi appaiono verosimili grazie alla televisione; la tirannia riesce a inflazionare il vero al verosimile, ma in generale ci riesce per poco. È inutile girarci intorno, forse questo terremoto sarà ricordato come il primo terremoto della propaganda: siamo in mezzo ad una guerra di simboli in cui, come in ogni guerra, il senso tra le parti tende a ridursi all’aut-aut. Un conflitto di simboli che ha come posta in gioco la colonizzazione dell’immaginario collettivo nazionale sul senso di una catastrofe locale epocale, dove sempre di più il rischio è una polarizzazione del significato dell’evento, un tiro alla fune in cui o si riesce ad affibbiare agli aquilani lo stigma dell’ingratitudine e della pretenziosità, o il Re si scopre nudo, e emerge che il Governo, attraverso l’aiuto, ha usato un terremoto come strumento di propaganda e di profitto, più come occasione per riprodurre l’ordine del mondo che come onere morale di curare un luogo ferito.
Questo conflitto propagandistico avviene nel mezzo dello tsunami di discorsi prodotto dal terremoto: la catastrofe scardina i normali meccanismi inerziali del luogo colpito, l’assurdo tende a diventare normale e si genera un’eccezionale secrezione di discorsi nella funzione di cicatrizzare lo squarcio prodotto tra il “prima” e il “dopo”. Essendo sommersi di segni è più difficile trovare rilevanze di senso, individuare precedenze di tematiche che possono aiutare a una migliore comprensione degli eventi. Tuttavia in ciò deve essere chiaro che se gli enunciati sono una marea che ci sommerge, i termini che li compongono si presentano in numero ridotto, ed educarci a filtrare termini chiave efficaci con cui costruire un discorso collettivo che sia in grado di rifondare il flusso di identità del luogo. I discorsi che galleggiano sulle macerie della città sono molteplici e ogni giorno che passa si moltiplicano, ma i termini che li compongono vanno intesi alla stregua di mattoni che, se scelti bene, possono nel tempo fare la differenza.
In ogni caso, tornando al discorso specifico di queste righe, è da ribadire in conclusione l’importanza di fare attenzione a non parlare dell’operato della Commissione Nazionale Grandi Rischi solo in termini di “mancato allarme”; e, si badi bene, non per un’opinabile questione di gusti personali ma per un fatto di correttezza semantica. È il caso di guardare con il cuore - uno ad uno - gli oltre trecento morti che prestarono ascolto a quelle rassicurazioni scientifiche, di prendere coscienza del fatto che i centomila vivi che fecero lo stesso sono il più delle volte vivi per puro caso; e quindi di comprendere - appieno e fuor di retorica - che quelle sono state prima di tutto “rassicurazioni disastrose” con cui è stato messo in atto “concorso colposo in una strage originata da un disastro naturale”.
I termini sono i mattoni del linguaggio, perciò il valore dei termini è dato dalla capacità che essi hanno di produrre una comunicazione efficace. Che si osservino teorie, gas, galline o culti, vale sempre lo stesso principio: se non si usano dei termini appropriati messi in una struttura capace, gli enunciati che si costruiscono hanno poca resistenza; e sotto sollecitazione possono crollare.


L’Aquila 13-06-2010