Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

giovedì 11 marzo 2010

G8 a L’Aquila: ipotesi sulle possibilità di convergenza tra disagio post-sismico della città e istanze di contestazione (inter)nazionale) 21-5-09

il testo (pubblicato anche su Carta settimanale n23 26 giugno 2009) contiene una proposta in merito al tema del G8 a L'Aquila, così come l’ho presentata durante l’incontro del 20 maggio 2009 con esponenti di partiti e movimenti, avvenuto a L’Aquila nella tenda del Comune presso il campo di accoglienza di Collemaggio.




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Abstract:

Per organizzare efficacemente il dissenso contro il G8 che si terrà a L’Aquila è essenziale trovare degli elementi di convergenza tra la situazione di una città postsismica e le istanze essenzialmente altermondiste che solitamente orientano gli stilemi di protesta in questi eventi. Catalizzare questi due poli in un’unica manifestazione può essere possibile per mezzo di un’integrazione all’interno del tema accomunante della politica della carità connesso alle strategie della shock economy, ossia sulla questione della funzione mimetica della solidarietà al minuto, pensabile come fattore di mascheramento delle spese per le grandi opere di (in)utilità sociale. Se la politica della carità può incarnare un polo di contestazione, in ambito propositivo potrebbe essere percorribile un discorso avente per oggetto le tematiche della sostenibilità.



PREMESSA

Come riferito dagli esponenti politici intervenuti all’incontro, è sin da ora chiaro in ambito partitico-movimentista che fare protesta a L’Aquila post sismica implica una solida e onesta consapevolezza della particolare tragicità della situazione. Da ciò emerge la necessità di trovare degli ambiti di condivisione tra manifestanti e abitanti, mentre al momento le posizioni movimentiste oscillano dalla proposta “morbida” dell’ARCI (non fare quasi nulla e stare lontani da L’Aquila) a quelle più “dure” dei COBAS o dei CSOA (organizzare proteste forti sul territorio).

In tale scenario è maturata la convinzione che è necessario dialogare preventivamente con le associazioni e i collettivi abruzzesi, accordando ad esse un ruolo fondamentale nel coordinamento dell’espressione del dissenso, al fine di evitare la nascita di tensioni tra le popolazioni terremotate e i manifestanti (che potrebbero essere percepiti come un’entità esterna che espropria i locali di un diritto all’espressione del tremendo disagio che oggi li attanaglia).

Come rilevato dal presidente del Consiglio Comunale Carlo Benedetti, in questo momento di estrema necessità di sostegno dei bisogni elementari di vita, a L’Aquila è presente un clima di disperata collaborazione con le istituzioni dei poteri costituiti. La preoccupazione primaria della città è capire quanti soldi arriveranno, quando arriveranno, come e dove si ridistribuiranno, in che modo evitare infiltrazioni malavitose esterne e sciacallaggi interni. In sintesi il problema della città è, dopo una tragedia collettiva che ha vanificato i sacrifici di diverse generazioni e si pone come minaccia per il futuro, come tornare alla chimera della normalità. In altri termini, occorre considerare che il concetto di “normalità”, tanto detestato dalle culture dell’antagonismo è diventato - nel qui ed ora di questo angolo dell’Occidente messo grottescamente sottosopra da un’apocalisse locale - una forma di desiderio che si pone “senza se e senza ma”.

Attualmente L’Aquila è un capoluogo di regione privato - in meno di un minuto – di oltre la metà del suo tessuto abitativo, del centro storico, di tutti i poli amministrativi e istituzionali, dell’ospedale, dell’università; un angolo di disperazione in mezzo al traballante mondo dell’opulenza avanzata, appeso alla promessa di risalire la china grazie a circa 3 miliardi di euro per fronteggiare l’emergenza e ai circa 5 miliardi di euro in ventiquatt’anni (una cifra irrisoria in relazione a quanto stanziato per gli altri terremoti e ai danni della città, una promessa in tempi in accettabilmente lunghi). Oggi a L’Aquila le ordinarie divisioni politiche si sono dissolte in un unico “partito della ricostruzione”, legato al cordone ombelicale della Protezione Civile, nutrice onnipresente e folle, in una schizofrenia che riesce a mettere coerentemente insieme l’aiuto amorevole e il colpo di Stato; tutto avviene nella cornice di un welfare di emergenza in cui possono (con)fondersi carità e controllo.

Ovviamente in questa situazione è parso da subito difficile trovare dei nessi di corrispondenza tra le esigenze locali e gli stilemi di protesta (inter)nazionale che solitamente accompagnano eventi politici come il G8.

PROPOSTA

Trovare una convergenza tra i fattori di disagio locale e le istanze globali di contestazione all’ordine costituito che, in eventi come il G8, rivelano ormai degli elementi di costanza, può essere possibile attraverso l’individuazione di tematiche che siano in grado di catalizzare all’interno di un contesto di senso unitario questi due scenari al momento apparentemente molto distanti. L’Aquila è ora - nel paradosso dell’eccezionalità di un evento catastrofico - regressa a una sorta di “Sud del mondo”. Il terremoto ha stravolto l’orizzonte esistenziale locale, e adesso definisce la norma da cui rialzarsi. Il sei aprile L’Abruzzo aquilano è stato - per quaranta secondi - il posto peggiore del mondo: uno dei tanto luoghi del nostro più o meno precario benessere occidentale si è trasformato, in un certo senso, in un’Africa da cui risalire. È chiaro che in questo contesto la composta disperazione di questi giorni minaccia, col tempo, col caldo, di degenerare in forme di parossismo collettivo.

Ricostruire l’aquilano riguarda un fatto di grandi opere pubbliche, e qui la carità rischia di tradursi più che in aiuto effettivo in una forma di propaganda paternalistica del potere costituito. Tutto ciò avviene, va detto, nella cornice di una politica nazionale dove il governo, mentre promette cifre per la ricostruzione intorno agli otto miliardi di euro, ha messo in piedi un carrozzone della solidarietà popolare che - tra gratta e vinci e trasmissioni televisive votate alla raccolta di offerte al minuto - satura l’opinione pubblica di un’atmosfera dell’elemosina che a lungo termine può portare distanziamento. Nel frattempo il governo tiene in caldo il progetto per il ponte sullo stretto di almeno quattro miliardi di euro; e, vergognoso, mentre ingrassa i media di regime con il défilé dell’ impegno, stanzia in silenzio 13 miliardi di euro per basi aree. Perché non mettere quei soldi, nel silenzio che si richiede all’aiuto per l’emergenza del terremoto, e chiedere alle donazioni i soldi delle basi aeree? Il giubilo di Bruno Vespa per i due milioni di euro spulciati agli italiani con gli sms se da un lato pare dire “ecco fatto! abbiamo risolto!” dall’altro nasconde opere come ponti sullo stretto e basi aeree[1]. Le reminiscenze scolastiche che accomunano tutti ricordano il monito manzoniano attraverso Don Ferrante alla moglie, che rimanda a questa evangelica sostanza: l’aiuto si fa concretamente e in silenzio, altrimenti è propaganda. Ancora una volta risulta problematico distinguere l’aiuto dallo sciacallaggio.

È in tal senso che si ritiene proponibile una convergenza delle istanze di contestazione entro il tema comune di un antagonismo rivolto verso la politica della carità, ravvisabile oggi in quella strategia che mimetizza - a mezzo della litania della solidarietà al minuto – il silenzioso sperpero di denaro pubblico in grandi opere pubbliche di dubbia utilità sociale e di sicura accessorietà rispetto alle necessità effettive delle masse. Le situazioni di emergenza, come quelle causate dalle catastrofi naturali, portano di fatto a scenari entro cui risultano praticabili strategie finalizzate e favorire grandi investimenti calati dall’alto in uno scenario di shock economy, in cui le popolazioni locali, paralizzate dal trauma collettivo e dalla necessità di aiuto, tendono a non opporre resistenza nei confronti di interventi diretti ad aiutare più gli investitori che gli interessati. Lo scialacquamento silenzioso delle risorse in opere poco utili contro le necessità dell’uomo è ciò che accomuna, in senso ampio, oggi L’Aquila a l’Africa (basti pensare alle spese per gli armamenti nel mondo, alla fandonia delle missioni su Marte in cerca di acqua, e via dicendo).

A livello di simbologie di protesta è altresì da notare che un luogo di convergenza tra L’Aquila e i movimenti antisistemici può essere inquadrato nel concetto di “zona rossa”: la zona rossa è il margine del potere contestabile, il luogo che in ogni G8 sancisce un confine e quindi una possibilità di ritualizzare la rivolta campale attraverso la simbologia dell’assedio a un limite. La zona rossa interdetta rappresenta in un certo senso anche la retrocessione a tabù della visione di “sinistra” del mondo. La zona rossa a L’Aquila è ora incarnata nell’interdizione del centro storico della città, chiuso in ogni angolo da presidi militari (“il centro storico è zona rossa” così sanciscono le forze dell’ordine).

Beffardamente la zona rossa a cui tutti gli aquilani sfollati nei campi possono, anzi sono costretti ad accedere, è rappresentata dai bagni della ditta Sebach, gli orrendi ma indispensabili cessi chimici (costituiti da un parallelepipedo di plastica di un metro quadro, quasi sempre di colore – appunto - rosso) che hanno invaso la città e che simboleggiano la privazione di bisogni elementari, la fine della comodità, la necessità entro cui la carità diventa beneficenza, ciò che prima era penuria diventa lusso. Quei cessetti di plastica sono il simbolo di una strategia dove il campo di accoglienza diventa strumento di controllo attraverso la riduzione delle persone a una massa di disperati (i containers avrebbero consentito maggiore autonomia agli sfollati, e quindi maggiore possibilità di autodeterminazione, questo evidentemente avrebbe consentito minore possibilità di controllo da parte di speculatori)

Se questo concerne l’orizzonte contestativo vedrei nelle problematiche inerenti alla sostenibilità (ambientale, geologica, economica, sociale) un nesso propositivo che può trovare nella situazione aquilana un’occasione di praticabilità: L’Aquila di domani dovrebbe essere una città esemplare costruita sul valore di una socialità sostenibile, non sull’interesse di un’economia dello sciacallaggio nella mimesi dell’aiuto.

Lavorare perché il sistema dei movimenti antagonisti al potere costituito acquisisca consapevolezza intorno alla situazione aquilana può essere un’occasione per evitare strumentalizzazione che potrebbero ledere l’eticità della protesta: solo così i manifestanti eviterebbero il rischio di esser visti dall’opinione pubblica nazionale e mondiale come dei rompiscatole egoisti che ripropongono dei cliché arrugginiti nella miopia rispetto alla gravità di situazioni immediatamente reali. Al lato opposto questi temi potrebbero forse portare alla protesta la possibilità di contestualizzarsi anche oltre certi canovacci di contestazione, i quali, se carenti di elementi di attualità, passano troppo spesso agli occhi dell’opinione pubblica come semplici momenti di folklore politico.

Personalmente preciso tutto questo in nome di un civile diritto all’espressione del dissenso politico, inteso come necessità imprescindibile per la garanzia della coesistenza democratica. Al contempo mi dissocio da subito e fermamente da qualsiasi forma di protesta violenta o in qualsiasi altro modo non consentita.

L’Aquila, 21 maggio 2009

Antonello Ciccozzi



[1] http://www.grillonews.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=3057

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