Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

sabato 13 marzo 2010

La FIDUCIA E' CROLLATA, SERVE AUTONOMIA L'Aquila, 10 marzo 2010

questo testo costituisce un comunicato di sintesi che ho scritto a nome di vari comitati e che dovrebbe essere pubblicato su una rivista che si accingono a dirigere i commissari attuali per la ricostruzione (e che pare si chiami "Noi l'Abruzzo")

ps. non m'è chiaro esattamente il motivo, ma il testo non poi è apparso in suddetta pubblicazione


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Mimetizzare strategie di profitto entro sistemi di aiuto è una pratica caratteristica delle relazioni di tipo postcoloniale, ma è anche quello che il sistema italiano della Protezione Civile ha messo in atto a L’Aquila per i primi dieci mesi del dopo terremoto. Che si sia fatto qualcosa non basta per pretendere ringraziamenti totali e incondizionati: dopo un anno dal sisma L’Aquila è in macerie, così l’altisonante retorica dei record e dei successi del Governo assume le parvenze di una strategia neo-dittatoriale di propaganda politica.

Gli alloggi del progetto C.A.S.E. sono caldi, ma insufficienti, spesso localizzati a spregio del paesaggio, e soprattutto hanno fatto da cavallo di Troia per profittatori di mezz’Italia, deviando di fatto fondi per la ricostruzione fuori dalle aree terremotate. Dopo un anno di aiuti complessivamente orientati prima alla speculazione che alla città, la fiducia è crollata.

Il terremoto dell’Aquila non deve continuare ad essere un’occasione per sfruttare fondi pubblici a scopo del profitto di soggetti privati, perciò il flusso economico dovrebbe essere concentrato verso la città, evitando la dispersione speculativa in catene di mediazione: è la città in concreto - ossia le soggettività singole e collettive della cittadinanza - che dovrebbe disporre dei fondi, non attori istituzionali esterni ad essa. Autonomia non significa chiusura autarchica: in città servono consigli e sostegno, non servono ordini e speculazione.

In questa situazione chiedere autonomia significa rivoltarsi contro uno sfruttamento speculativo dell'emergenza finalizzato a politiche economiche date a partire da istituzioni extralocali e orientate al profitto; significa rovesciare questo dispositivo per chiedere una ricostruzione sostenibile incentrata su principi culturali e sociali a partire dalla popolazione. Ad esempio in questi giorni il concetto generale di autonomia va coniugato nel pensare alle macerie in termini di riciclaggio e non di smaltimento, trattandole come risorsa e non come problema.

Autonomia significa prima di tutto pretendere che s’inizi a parlare e a scrivere di “terremoto dell’Aquila”, sopprimendo in toto la subdola denominazione “terremoto d’Abruzzo”, dai discorsi politici e soprattutto dagli atti istituzionali. Non si tratta di portare i fondi per il terremoto d’Abruzzo all’Aquila, ma di distribuire i fondi per il terremoto dell’Aquila su tutto il cratere, a partire dall’Aquila. Autonomia significa, prima di tutto, darsi i nomi e non subirli dall’esterno; perciò questo terremoto - dato che è iniziato nell’Abruzzo aquilano e nell’Abruzzo aquilano deve finire - si chiama “terremoto dell’Aquila”.


L'Aquila, 10 marzo 2010

giovedì 11 marzo 2010

BERTOLASO HA FATTO DELLE COSE BUONE (MA SOTTO IL SUO DOMINIO L’AQUILA E’ STATA STUPRATA) 5 marzo 2010


Con questo scritto ho cercato di sottolineare come le pratiche di aiuto dirette da Guido Bertolaso verso le zone terremotate dell'Abruzzo aquilano, nascondendo nel cavallo di Troia degli aiuti una serie di inaccettabili aspetti di speculazione, si configurano alla stregua di una forma dittatoriale di postcolonialismo intraoccidentale, attuato attraverso il pretesto dell'emergenza portata dalla catastrofe naturale.

Il testo è stato pubblicato sui seguenti quotidiani online:

http://www.abruzzo24ore.tv/news/Guido-Bertolaso-un-eroe/15400.htm

http://www.ilcapoluogo.com/news.php?extend.2791.3



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Uno schizzo dell’artista Sergio Nannicola: il lato oscuro dell’aiuto. Avvoltoi e sciacalli intorno a una città agonizzante. Morti e macerie su un piatto della bilancia, profitto e speculazione sull’altro. Manca l’uomo.



UNA SANA RIS(VEGLI)ATA

Capita che la satira riesca a risvegliare le coscienze con una sana risata, arrivando subito in anfratti dove, a volte, la ragione annaspa. Sono già passati quindici anni da quando Roberto Benigni, uno dei maestri di quest’arte vitale, ci diceva qualcosa su Mussolini in una performance che può essere utile anche per evidenziare alcuni aspetti della sostanza morale di certi protagonisti che hanno determinato il destino dell’emergenza aquilana, e che potrebbero rivelarsi una nuova minaccia per l’Italia entro un groviglio di solidarietà e profitto.

È capitato a tutti sentire dire che Mussolini “ha fatto delle cose buone”, specialmente in riferimento a infrastrutture varie, tra funzionalità popolare e monumentalità auto celebrativa. È proprio riferendosi a questo tipo di affermazioni il grande comico controbatteva acutamente con una metafora grossomodo di questa risma: è come se chiami l’elettricista e questo ti fa bene l’impianto ma nel frattempo ti “tromba” la moglie.

Invito a gustare a fondo il pezzo, vero monumento alla libertà, da questo link: http://www.youtube.com/watch?v=9s4RfjBnDPE

Dico subito che sono dell’opinione che la descrizione data dal comico toscano - direi ammiccando a una possibilità transitiva di tali qualità verso Berlusconi - possa calzare comodamente anche a un personaggio come Bertolaso, che considero una figura intrinsecamente ambivalente, in cui elementi di varia e più o meno dozzinale per così dire “democraticità” sono intessuti intorno a un piglio e a condotte di tipo assolutistico-dittatoriale. Qui va precisato che il termine ‘opinione’, designando una conoscenza che non ha garanzia della propria validità, concerne questioni di credenze, fissazioni, posizioni soggettive, relative e discutibili. Parlando di ‘fatti’ invece ci dovremmo riferire ad avvenimenti che rimandano a possibilità oggettive di verificazione.

Ad essere sincero, se ci penso bene, ritengo pure che questa mia opinione personale sul commissario in questione, porti, ora e sul territorio di L’Aquila, una serie tale di elementi fattuali che la rendono poco opinabile, a meno di non voler ostinarsi a guardare solo una parte di quanto è toccato a questa città.

Qualcuno dice che Bertolaso è un eroe. Sarà che mi sbaglio, ma a me Bertolaso più che un eroe sembra un mercenario, un po’ egocentrico, un po’ fanatico, un po’ colonialista, un po’ dittatore. Certo uno al passo coi tempi, in un decisionismo spesso ammantato da modi abbastanza ricercati e gentili; ma uno che ha instaurato - per un arco di tempo che si fisserà sulle nostre vite come una cicatrice - un regime assolutistico entro una relazione di potere di stampo più coloniale che democratica nel mentre curava da un terremoto la città in cui vivo, e in cui ho il diritto di cercare un modo migliore per vivere.

Sarà che non mi piace la gente che vuole comandare in divisa: la storia è piena di persone in divisa che in varie situazioni di crisi si siedono dietro un tavolo a dare ordini per la salvezza delle popolazioni. Questi signori in uniforme spesso si sono rivelati dittatori, che a volte ci provano e a volte ci riescono, nella sfilata di vari modi e varie forme portate dalla storia, ma con un cipiglio di fondo sempre simile, quello del “si fa come dico io”. Cambiano le fogge delle divise, ma non cambiano i modi di fondo.

Se dovessi sbagliarmi mi scuso tanto, ma, visto che in Italia c’è libertà di opinione, vorrei provare ad usare questa libertà e argomentare questa mia bruttissima impressione. Anche perché le libertà sono come le gambe: se non si usano perdono forza.



LA R(APPRESENT)AZIONE

Un primo punto che mi bisbiglia che considerare in malo modo degli aspetti fondamentali della figura di Guido Bertolaso possa poggiarsi su un piano fattuale, deriva dal senso che mi viene pensando a una figura retorica particolarmente chiarificante riguardo a ciò che avviene a L’Aquila (ma purtroppo anche altrove): la sineddoche. “La prua per la nave”, ad esempio. La sineddoche, indicando “la parte per il tutto”, si presta a descrivere bene la sostanza prima dei processi di comunicazione massmediatica che hanno riguardato L’Aquila ferita dal terremoto, dove, aprendo una strada di duecento metri, si poteva dire all’Italia che aveva riaperto tutto il centro storico. La sineddoche è un riflettore puntato su una parte, che nasconde il resto, censurando elementi insignificanti o, ma anche, a volte, nascondendo volutamente trappole varie. L’uso più fastidioso della sineddoche che è stato fatto da Bertolaso è quello in base al quale si è sistematicamente scelto di mettere in evidenza - nella relazione che ha legato L’Aquila all’Italia e minimamente al mondo - solo la parte di solidarietà, nascondendo una serie enorme di processi di profitto più o meno leciti, che ora vengono a galla.

La sineddoche evidenzia ciò che conviene nascondendo l’altro, è un ottimo modo per coprire l’eccesso osceno del potere. Essa è un riflettore che in questo terremoto ha messo in luce con grande enfasi solo l’aiuto, adombrando il fatto che spesso tale aiuto ha aiutato più chi lo ha portato che chi lo ha ricevuto. Già il non sottolinearlo è ingeneroso da parte di chi aiuta, farci poi un motivo di speculazione economica e di scalata di potere è illegale oltre che immorale. La sineddoche è azione di potere, è il carburante che consente alla macchina della propaganda di funzionare. La sineddoche conferisce questo potere in quanto essa sottende una rappresentazione razionata della realtà in base a criteri di selezione culturalmente, politicamente, ideologicamente, economicamente orientati.

LA NEG(OZI)AZIONE

Se la sineddoche riguarda processi di cesura operati entro sistemi di rappresentazione, una procedura simile ha investito i processi di negoziazione degli interventi nella forma di una binarizzazione degli ambiti di scelta: o-tutto-o-niente. Il dispositivo del o-tutto-o-niente è la chiave di una forma specifica di organizzazione assolutistica del potere che può essere intesa come autoritarismo incondizionato da parte del lato del dominante, e come privazione totale di autonomia da parte del lato del dominato, che risulta così eterodiretto. La relazione che si configura tende a un rapporto di potere puro, totalmente sbilanciato in una direzione.

L’o-tutto-o-niente, sedimentato a livello di cultura popolare anche nel detto “o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra”, è quello che è avvenuto con le tende, con le case: “queste sono e queste ti prendi”, in una privazione totale di autonomia decisionale da parte della popolazione. È così che un processo di selezione tra una rosa di scelte possibili può essere smerciato, nel nostro caso in nome dell’emergenza, come necessità inevitabile (nel nostro caso solo quelle C.A.S.E., con solo quelle piastre, in base a un progetto già nel cassetto).

L’o-tutto-o-niente di fatto nega la possibilità di negoziazione, e lo fa all’interno un assolutismo di machiavellica memoria, in cui il potere ritiene bastante la sua legittimazione in termini di stretto bonum commune, dove la capacità reale o ostentata di dare sicurezza diventa pretesto sufficiente per l’egemonia in cui la capacità di direzione si fa subito possibilità d’imposizione, ossia dominio.



L’(ACCETT)AZIONE

Dopo aver accennato ai modi di fondo in cui si sono attuate la rappresentazione (parziale) dell’evento e la negoziazione (negata) degli interventi, c’è da dire qualcosa rispetto ai consequenziali processi di accettazione dei sistemi di scelta calati sui destini della popolazione sopravvissuta alla catastrofe.

In tal caso si è assistito a un processo speculare e conseguentemente necessario all’o-tutto-o-niente della negoziazione negata; dove la polarizzazione tra “si” e “no” - nell’impossibilità del rifiuto dell’aiuto portato dalla necessità - ha fondato l’obbligo di accettazione da parte della cittadinanza dell’apparato di cui Bertolaso è a capo. “Io ti porto questo aiuto e tu lo accetti in blocco”. Ecco la sintesi della relazione che ha costretto la città ad accettare, con il sostegno, lo stupro da parte di un sistema di profitto che ancora la minaccia pienamente. Margini minimi di autonomia sono stati solo concordati con le inette e corrotte istituzioni locali (ma questo è un altro discorso che ho fatto più volte) lasciando la cittadinanza senza possibilità di arbitrio.

L’emergenza, riducendo allo stato di necessità, favorisce processi di accettazione che legittimano il dispositivo logico che sta alla radice della deviazione estremistica di qualsiasi relazione: quello del tertium non datur, dove una concezione del possibile diadica e non triadica, precludendo una relazione dialettica, porta al rifiuto di ogni compromesso.

Accettare vuol dire ricevere di buon grado ciò che viene offerto, acconsentire all’altro; in un significato che etimologicamente si radica in quello di prendere a sé, ossia, comprendere, capire. I processi di accettazione hanno in città avuto un supporto di comprensione sufficiente?

Ciò che andrebbe compreso è che la macroentità che è piombata a L’Aquila dopo il sisma vede una costitutiva compresenza di profitto e aiuto. È proprio quest’ambivalenza che rende parziali le approssimazioni nette del tutto “pro” o tutto “contro”; perciò è più che mai indicato coltivare il sano e scientifico principio del dubbio. È il dubbio che apre alla possibilità di discernimento: la riserva del “ma” è una porta verso l’autonomia, una possibilità di uscita dal rischio di eterodirezione. Se il “sì” totale appare ingenuo a certi e il “no” totale sembra ingrato ad altri, personalmente coltivo la possibilità del “ma”, del “però”, del “tuttavia”.

Per quanto mi riguarda sono uno che dice ragionatamente grazie per la minestra, ma la contropartita non è ridurre la città a una colonia per speculatori. Sono un “quantunquista”. Credo che l’unica azione possibile sia discernere senza accettare (o non accettare) in blocco: separare, come evangelicamente si usa dire, il grano dall’erba cattiva; ma in questo caso, riguardo a Guido Bertolaso, “capo” della Protezione Civile, mi pare che sul piatto della bilancia l’erba cattiva, seppure difficilmente visibile perché meno alta del grano, sia davvero tanta.



LA CURA (MONU)MENTALE

Il nome dell’Aquila rimanda a un alveo simbolico vastissimo, tra l’universo classico (era l’uccello di Zeus) e quello sciamanico (la regina del cielo per gli sciamani siberiani, il sole per i nativi americani). Il simbolo comprende aspetti luminosi derivati dall’elegante forza dell’animale come la fierezza, la bellezza, la spiritualità, l’elevazione intesa come contemplazione e purezza d’intelletto; e aspetti malefici derivati dal suo essere emblema di predazione, come la crudeltà, il rapimento, l’imperialismo, l’oppressione, la perversione del potere.

È paradossale che oggi questi aspetti nella città che porta un nome così bello e tremendo si siano sgretolati, confusi, a volte totalmente invertiti, scoprendo (pensiamo ai poteri locali e al perdurante inebetimento di buona parte della popolazione) un luogo di imbarazzanti debolezze e di grettisima miopia politica. L’Aquila viceversa è assalita dagli avvoltoi e sciacalli profittatori che si annidavano dal primo giorno del dopo terremoto dentro il cavallo di Troia degli aiuti, e si è trasformata da predatore in preda. Oggi L’Aquila si ritrova immobilizzata da una cura che non mira tanto a guarire quanto a imbalsamare.

Questo essere-aiutati a prezzo della perdita di autonomia si configura come una condanna all’essere agiti, che produce un non-esserci, nell’idea angosciante di una felicità galleggiante in una deriva eterotopica, senza luogo, tra la serialità, l’impersonalità, la blasfemia paesaggistica del progetto C.A.S.E., e il vuoto consumistico degli unici spazi collettivi al momento fruibili: dei tristissimi centri commerciali. Ora L’Aquila, che era una città splendida, fa letteralmente schifo, ma non per colpa del terremoto: il terremoto ha prodotto orrore. L’Aquila inizia a fare schifo per colpa di soluzioni che hanno generato futuri problemi da risolvere, immergendola in un circuito urbanistico che produce alienazione; in una città fatta a pezzi attraverso metastasi condominiali buttate alla rinfusa tra i margini rurali del territorio comunale. Questo ha significato in concreto dare aiuti che servono più a chi li porta che a chi li riceve. Questo significa usare l’emergenza come pretesto per veicolare fondi pubblici a beneficio del profitto di soggetti imprenditoriali privati.

È per questo che mi puzza tanto di dittatoriale la cura della città attraverso la monumentalità spicciola del progetto C.A.S.E., che mentre ospita in comodato d’uso i terremotati, fornisce un’occasione enorme di ampi margini di profitto a moltissime aziende, e una risorsa propagandistica con cui Berlusconi e Bertolaso ostentano doti taumaturgiche da riconvertire subito in un palpabile incremento di consenso politico. Anche questa è una forma di sineddoche: ne accontenti pochi e li imbelletti di fronte alle telecamere, il resto di loro, come il resto d’Italia che annaspa per campare, quelli non li fai vedere. Le Brigare Rosse avevano un motto: “colpirne uno per educarne cento”. È un sistema analogo a quello del Governo, la parte per il tutto: “soddisfarne pochi per fregarne molti”. Chi vive nell’adunata oceanica del progetto C.A.S.E. aquilano sta in comodato d’uso dentro un enorme spot governativo, e paga con il minimo sindacale del silenzio assenso, o con commossi e sperticati ringraziamenti di chi ha paura di finire in mezzo a una strada. Poi, quelli che parlano male del Governo lo fanno solo perché sono comunisti. E il gioco è fatto, questo gioco è già noto ma non si poteva non richiamare. Qui a L’Aquila o ci accorgiamo che ci hanno fregato in questa prima fase o ci esponiamo ad essere ancora fregati con gli affari delle macerie e della (reale) ricostruzione.

Nel primo testo che pubblicavo - un mese dopo il terremoto - per criticare la localizzazione del progetto C.A.S.E., paragonavo la vicenda dell’Aquila a quella della povera Eluana Englaro, la ragazza che, proprio poco prima del terremoto dell’Aquila, chiuse la sua sfortunata avventura terrena dopo una prigionia crudele, con il suo corpo costretto dalle macchine istituzionali a vivere senza l’anima. In un’inversa specularità guardavo l’interdizione militare del centro dell’Aquila come una minaccia di morte della sua anima. Contro quelle macchine siamo ancora chiamati a lottare. Eluana e L’Aquila: in entrambe i casi lo scopo perverso non è liberare il corpo dal male, ma usare il corpo per la cura. Le macchine istituzionali che finalizzano la cura della città non alla guarigione ma al parassitismo si chiamano così: profitto attraverso l’aiuto.

A mio parere, la vera cura per la città dell’Aquila sta nello sviluppo di una mentalità. Questa forma mentale, starebbe – fuor di retorica - nel disporci con vigore a cacciare gl’invasori dalla città, ma sempre distinguendo il grano dalla zizzania, ossia dispensando riconoscenza e ospitalità a chi ci ha aiutato, ci aiuta e ci aiuterà onestamente; dove l’onestà si misura nel riconoscimento reciproco di solidarietà e autonomia, e non in indebite santificazioni. La vera cura sta nel ritrovare e coltivare un misurato orgoglio che sia capace di distinguere e separare ciò che va da ciò che non va, disponendo la città a difendersi dalle aggressioni senza commettere l’errore di chiudersi alle relazioni sane.

Dovrebbero essere rifiutate certe logiche di tipo esclusivo (dell’o-o), in cui il consenso non può che essere assoluto, come pure il dissenso. Qualcuno vede nella Protezione Civile solo un sistema di aiuti, altri vi vedono solo un sistema di profitto; qualcuno vede nel progetto C.A.S.E. solo un successo, altri solo un fallimento, Quello che resta fuori è una possibilità di accettazione inclusiva (dell’e-e), che possa rendere conto dei paradossi e delle contraddizioni presenti in un’istituzione complessa e articolata come quella della Protezione Civile, e negli esiti delle sue politiche. Aprendosi a una visione inclusiva delle contraddizioni ci si può disporre a riconoscere un apparato che intreccia aiuto e profitto, in cui il sistema di solidarietà copre come un cavallo di Troia una strategia economica di speculazione, in un’aggressività che arriva fino al tentativo di colpo di Stato neoliberista insito nella pretesa di fare della sicurezza una società per azioni.

Come per le macerie occorre separare, distinguere, differenziare i piani, e per capire che succede a volte bisogna saper leggere tra le parentesi, allora ci si può accorgere che alcuni doni sono in realtà – certamente non solo, ma anche - dei cavalli di Troia. Lasciamo gli eroi ai miti e iniziamo un discorso di consapevolezza sugli uomini. L’unico eroismo che vedo in questa storia sta nella gratuità e nel sacrificio di chi è venuto senza contropartite nascoste. L’unico modo per rendere merito al sacrificio delle vittime di questo terremoto è farne degli eroi mettendoli a sentinella di una ricostruzione che sia realmente sostenibile sotto tutti i punti di vista, e che non produca rattoppi urbanistici mettendo di nuovo a rischio le future generazioni.



SI PUO’ METTERE UNA CITTA’ ALLA BERLINA?

È abbastanza chiaro che scrivo proprio ora queste righe perché sono indignato per la manifestazione pro-Bertolaso che dovrebbe tenersi domenica 7 marzo a L’Aquila, non tanto perché c’è gente che vuole manifestare a sostegno di qualcuno che reputo molto poco elogiabile, ma perché non riesco ad accettare che il senso di questa cerimonia debba essere, per chi l’ha organizzata, questo: “non accettiamo che un eroe nazionale venga messo alla berlina”. Da una parte il “non” del proclama rende sottilmente tale evento una manifestazione contro chi ha criticato Bertolaso. Poi, si usa un termine, quello di “eroe”, che è quanto meno improprio per descrivere la persona di Guido Bertolaso attraverso il suo operare. Un conto sarebbe dire che ha fatto anche qualcosa di buono, un conto è pretendere il titolo di “eroe”. Il “nazionale” aggiunge un elemento ulteriore di preoccupazione. Siamo in un certo senso persino più in là di quello che ha sottolineato Benigni. Bisogna stare attenti a certi osanneggiamenti. Per il bene dell’Aquila e dell’Italia. Si inizia con una città, e non si sa dove si finisce.

L’eroismo, nel senso onesto del termine, riguarda azioni descrivibili in termini di dono, nella gratuità, fino al sacrificio di sé. In una declinazione delle forme del dono tra gratuità, reciprocità e possesso, Bertolaso non arriva nemmeno alla reciprocità: non c’è reciprocità quando l’essere-aiutati si configura nel non-esserci dei terremotati, ossia nella privazione di autonomia finalizzata alla spoliazione tramite il profitto.

Il terremotato: ormai siamo una categoria marginale, elementi di bassa umanità, descritti come “esasperati che non ragionano” dai massmedia, come privi di “lucidità” da certi politici, animalizzati attraverso mesi di tendopoli e rappresentazioni massmediatiche che cercano solo la lacrima o l’urlo, preparati alla domesticazione del “grazie” incondizionato sotto la minaccia di esser tacciati di ingratitudine. L’Italia intollerante ci insulta come insulta altre minoranze, in un bestiario neorazzista in cui iniziamo ad accorgerci di essere stati annessi, come disperati di lusso, ma pur sempre disperati. Oltre i negri, i froci, gli ebrei ora ci sono i terremotati. Il male ricevuto è segno di colpa, è la forza primitiva di un universale archetipo espiatorio, che cova sotto le moine solidaristiche di qualsiasi civiltà. Il terremoto così produce un dislivello di cultura. Questo non si può accettare.

L’unica reciprocità qui è stata: “io ti aiuto come dico io, tu fai il terremotato, ossia dici grazie e non fiati, altrimenti sei ingrato”. La reciprocità della gratitudine incondizionata come contropartita al dono imposto è nient’altro che possesso. Questo fa di Bertolaso, nella migliore delle ipotesi, se si vuole cercare una definizione accessoria a quella di “capo” della Protezione Civile, un mercenario a servizio di un sistema di profitto; e un mercenario non è un eroe.

Non è la prima volta che i contesti di aiuto umanitario si rivelano come situazioni di esercizio di relazioni di potere di tipo post-coloniale; e, in ogni congiuntura coloniale, chi invade si serve sempre di appoggi interni diretti o indiretti per operare. Quindi è possibile che qualcuno a L'Aquila andrà a osannare Bertolaso anche per convenienza, connivenza o ingenuità. In questa manifestazione personalmente vedo un atto propagandistico di sostegno sia a una politica di eterodirezione della città in nome del profitto di privati che usano i fondi pubblici dell'emergenza per l’arricchimento personale sia a una strategia di scalata al dominio nazionale attraverso la scorciatoia dell’egemonia offerta dai contesti emergenziali.

Mi aspetto che il presidente della Regione Chiodi ci vada a questa manifestazione per dire che Bertolaso è un eroe; e forse anche il sindaco Cialente (il nostro sindaco, che ha consegnato le chiavi della città al commissario Bertolaso per avere probabilmente come tornaconto la possibilità di mantenere la sua aiuola clientelare di casta) ci dovrebbe andare, insieme alla presidente della Provincia Pezzopane. Certo, anche Cialente e la Pezzopane dovrebbero andare a manifestare, per mantenere una coerenza con la linea mostrata per mesi di fronte ai media nazionali: grandi sorrisi, applausi, inchini, ringraziamenti e spumantini a Berlusconi e Bertolaso davanti all’Italia. Poi, quando era il caso, sussurrate disapprovazioni carbonaresche di fronte alla cittadinanza, ma sempre lontano dai media nazionali. Viene da pensare che ci sia stato un “voi governanti abruzzesi fateci fare, avrete la vostra fetta della torta”. Ma questo è un altro discorso.

Mi auguro, per quanto mi riguarda, che saranno tanti gli aquilani, nella libertà di esprimere la propria opinione, a dichiarare indignazione contro l'offesa che questa manifestazione rappresenta: non si può celebrare come eroe chi è stato capo di un sistema che è venuto a fare profitto sulla nostra disgrazia; e mi pare che Bertolaso mentre ci aiutava – facendo il proprio mestiere - abbia fatto anche questo in modo diretto e indiretto, entro un’enorme varietà di forme che stiamo ora iniziando a comprendere: un profittatore, nel senso etimologico del termine, per quella che voleva far diventare la sua “azienda”; un mercenario per il profitto di addentellati vari, che mentre nutriva la città l'ha preparata per lo stupro, con la complicità accontentata di qualche cialtrone e delinquente locale, con il favore dell'emergenza.

Non si può impedire una manifestazione. Non si può impedire una manifestazione? È un tema delicato; che, ancora una volta, riguarda il distinguo tra opinioni e fatti. È una questione di relativismo e di valori universali. È una questione di verità. Le opinioni sono opinioni, e - in un confine labile, confuso, sovrapposto e intricato - i fatti sono fatti. Ma qui il terremoto, come fa qualsiasi altro sconvolgimento, ha sconnesso la verità dai fatti, dove bene o male riesce molto precariamente ad ancorarsi nei tempi “normali”, e ora la verità sta alla deriva nella palude delle opinioni. L’Aquila è un luogo in cui la verità è, più che altrove, in balia delle opinioni: il terremoto era 5.8 o 6.3 gradi? Perché ci hanno tranquillizzato? E ora, Bertolaso è un eroe? Un eroe nazionale? Già, perché per qualcuno Bertolaso è un eroe, per altri è un profittatore, per certi è un dittatore. Non solo: se le opinioni vanno rispettate, allora va rispettata anche la posizione di quelli che pensano che Bertolaso è un assassino. Si tratta in certi casi di gente che porta la croce di lutti insanabili, quindi la loro opinione va rispettata due volte. C’è al mondo chi manifesta contro o pro il burka, chi alimenta l’industria della prostituzione, chi vuole cancellare Israele e chi vuole cancellare la Palestina. La libertà di opinione confina telluricamente con i limiti dell’idiozia, della decenza, dell’orrore, è una cosa complicata.

Perciò chi andrà a dire in un luogo pubblico che Bertolaso è un eroe, dico un eroe, deve sapere bene cosa sta facendo, perchè o è concusso o non ha capito il senso di certi termini. Un eroe è un eroe. Un eroe, per esempio, è chi si è infilato sotto le macerie rischiando la vita per estrarre un ferito. Quindi sarei cauto, tra tanti eroi comuni che sono venuti a L’Aquila, a erigere monumenti terminologici a Bertolaso. Inoltre – a voler parlare di sacrificio - con più di trecento morti ammazzati con la complicità dei messaggi rassicuranti (scientificamente del tutto inammissibili) mandati dalla Protezione Civile quella notte, credo che qualcuno potrebbe offendersi, profondamente e, con tutte le ragioni del caso, ritenere certi entusiasmi un atto di sacrilegio.

L’importante però è che la gente di questa città sta iniziando a capire; e chi viene a L'Aquila per fare profitto su una disgrazia collettiva inizierà a rendersi conto che ha sbagliato posto. Se proprio andiamo cercando di attribuire certe etichette dovremmo tenere presente che quella dell’eroe è una figura legata al sacrificio. Allora Forza L’Aquila, città eroica; che da qualche parte bisogna pur cominciare per coltivare una rinascita, e a volte anche la retorica può aiutare, che le parole da sole non sono sufficienti ma sono necessarie se si vuole fare bene.

L’Aquila 05-03-2010

Antonello Ciccozzi

RICICLARE LE MACERIE PER UNA CITTA’ SOSTENIBILE 22 febbraio 2010

Scrivo in tutta fretta, ma si tratta di un tema cruciale. Se la qualità del futuro dell’Aquila dipende da molte variabili, la differenza dei nostri destini dipenderà da come saremo in grado di comprendere queste variabili, ossia di selezionarle in base alle priorità e di interpretarle in base alle possibilità di azione.

La variabile al momento più problematica ha il nome di MACERIE, e rimanda all’opposizone tra SMALTIMENTO e RICICLAGGIO, ossia al bivio tra uno scenario di SOSTENIBILITA’ e uno di CONSUMO.

Personalmente credo che si debba con forza respingere qualsiasi prospettiva di smaltimento, per avviarsi verso un’economia della sostenibilità che preveda il trattamento delle macerie in forma di riciclaggio, e in modo da insediare nell’area aquilana uno stabilimento industriale adibito a tale produzione. Questo significa non solo ricavare materiale dal rifiuto, ma trasformare un problema in una risorsa, una spesa in un guadagno, una barriera in una prospettiva, una tragedia in un lavoro. Questo significa per L’Aquila una parola: futuro.

In Italia, nazione attanagliata da un’ideologia della conservazione che spesso risulta eccessiva e rende miopi, la cultura edilizia della demolizione e del riciclaggio dei materiali da costruzione non è ancora stata recepita con dovizia. Occorrerebbe che i politici iniziassero a guardare all’estero per chiamare chi è in possesso delle migliori tecnologie attualmente disponibili su scala planetaria, per pensare a un insediamento industriale che si occupi di questa forma di produzione, per un discorso all’avanguardia che possa essere anche occasione di laboratorio di sviluppo e miglioramento della tecnologia stessa di riciclaggio.

Questo consentirebbe alla città di uscire dal RISCHIO DEL “RATTOPPO” di gran parte del tessuto condominiale, che si profila all’orizzonte anche come antitodo per la carenza di luoghi da usare grettamente come pattumiere per buttare la città crollata. Questo consentirebbe di evitare di finire in mano alla criminalità organizzata, da sempre pronta ad affrontare problemi gestibili solo di nascosto.

In altre nazioni la scelta tra ristrutturazione e abbattimento di un condominio riguarda una scelta costi/benefici che tiene conto delle spese e del valore di mercato in modo lucido e lungimirante. In nazioni come la Germania un condominio può essere demolito anche per lavori che superano appena la reintonacatura. Una ditta spacializzata smonta tutti gli infissi e gli interni, poi il palazzo viene demolito; il mucchio di ferro, cemento e mattoni che ne resta entrano in una fabbrica, ed esce ferro e materiale inerte per l’edilizia. Il tutto richiede mediamente circa una settimana di tempo. Non è possibile che ci dobbiamo ridurre alla ricerca di terreni entro cui seppellire la città. Non è possibile che ci accingiamo a rattoppare centinaia di palazzi infartuati esponendo i nostri posteri a un rischio assurdo.

Ovviamente, per i palazzi del centro storico andrebbe fatto un discorso di selezione qualitativa dei materiali, per i condomini della periferia sarebbe più adatto un approccio quantitativo; ma, tenendo conto di una necessaria differenziazione della tipologia di intervento, in entrambe i casi, ancora, dovrebbe valere l’imperativo ecologico del riciclaggio, concretamente, della ricerca della massimizzazione del materiale riciclabile.

Questo discorso a L’Aquila è stato affrontato solo marginalmente grazie all’interessamento del consigliare Antonello Bernardi; ma ora, nel momento decisivo, è preoccupantemente sparito dal dibattitlo pubblico e istituzionale. Queste righe vogliono sulla vitale imprescindibilità dell’argomento, e un monito per avvertire tutti dei rischi che corriamo.

Ci credo poco, ci credo poco dato il clima che si respira; ma, se L’Aquila vuole ancora provare a diventare d’esempio per il mondo, trasformando la catastrofe in catarsi, la strada della ricostruzione non può che passare per i territori della SOSTENIBILITA’. Solo così potremo diventare un luogo esemplare per il futuro.

Con le parole che scegliamo (ri)costruiamo il mondo intorno a noi, e per comprendere le direzioni auspicabili per il nostro futuro occorre scegliere in senso culturale, prima che economico. La sostenibilità è un concetto culturale che richiede scelte e attivazioni tecniche, ma è necessario costruire prima senso comune intorno a ciò che deve essere percepito come un valore necessario. A mio parere le parole di questi giorni dovrebbero essere: RICICLAGGIO DELLE MACERIE PER UNA RICOSTRUZIONE SOSTENIBILE.

A questo i politici sono chiamati, e in base a questo la storia li peserà riguardo a come seppero affrontare il terremoto dell’Aquila (che è diverso dal terremoto d’Abruzzo).

L’Aquila, 22-2-2010

Antonello Ciccozzi

DALLA LOCALIZZAZIONE DELLE C.A.S.E. AL RATTOPPO DEI CONDOMINI: LE FORME DELLA CORRUZIONE POLITICA NEL TERREMOTO DELL’AQUILA 15 febbraio 2010

questo testo fa il punto sul progetto C.A.S.E., ponendosi in riferimento alla tematica della corruzione, è stato pubblicato sul web su http://www.collettivo99.org/site/?p=1992 (uscito anche su Carta settimanale 4 marzo 2010)


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In questi giorni l’Italia, o una parte di essa se si preferisce, si interroga sulla rettitudine di Guido Bertolaso, e - in una istintiva smania semplificatrice che non può contemplare l’eventualità che l’eroe di turno possa umanamente essere sia un mezzo salvatore che un mezzo farabutto - si affanna a trovare prove di corruzione. A L’Aquila le prove ci sono, sono sotto gli occhi di tutti, come evidenze implicite ma concrete, che non riguardano poco consistenti concatenazioni a oscene manifestazioni di cinismo telefonico o alcuni variamente presunti benefici venerei.

Sono tante le prove, e alcune sono grandi come una casa, anzi come circa la metà dei quasi 200 palazzoni condominiali del progetto C.A.S.E.. Nelle righe che seguono cercherò di spiegare perché, al di là delle opinioni personali, tale operazione urbanistica costituisce, ipso facto, un esempio di corruzione che vede coinvolto il sistema della Protezione Civile in concussione con l’amministrazione locale aquilana, con l’appoggio di una imponente propaganda mediatica, e tra lo stordimento, la troppa distrazione o il silenzio-assenso dei comitati e della società civile in generale riguardo il connotato della localizzazione di tale progetto. A tal fine occorre partire da un paio di premesse concettuali.

Prima di tutto può essere utile chiarire il senso del termine ‘corruzione’ riferito al politico; senso che sta tra l’antropologia culturale e il diritto penale. Il politologo Gianfranco Pasquino ci dice che «la corruzione è politica quando si estrinseca in comportamenti contrari alle credenze, ai valori, alla cultura di una società e, allo stesso tempo, quel che più conta, con modalità difformi rispetto alle leggi che regolano l’esercizio legittimo del potere nella sfera pubblica. Pertanto oggetto e misura della corruzione politica sono tutte le decisioni prese o non prese dai detentori di potere politico che violano le norme giuridiche generali per perseguire interessi e vantaggi particolaristici». Questa definizione sottolinea tra le cose che la corruzione politica dipende non solo dalle decisioni prese da chi ha potere, ma anche da quelle non prese.

Come seconda premessa è opportuno un richiamo alla Convenzione Europea del Paesaggio, che la Repubblica Italiana ha recepito nel 2006 per rafforzare uno tra i più vilipesi articoli della Costituzione, l’articolo 9 (che recita: «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione»). Questo dispositivo normativo, a partire da una definizione di paesaggio in termini di percezione del carattere di un territorio da parte di chi lo abita, chiama una prospettiva di sviluppo sostenibile che prevede la salvaguardia di tutti i paesaggi, nell’idea che il patrimonio paesaggistico sia un elemento fondamentale a garantire la qualità della vita delle popolazioni. La finalità sarebbe quella di soddisfare gli auspici delle popolazioni di godere di una geografia di qualità e di svolgere un ruolo attivo nella sua trasformazione; dove “ruolo attivo” significa prevedere il diritto degli abitanti di un luogo di autodeterminazione delle caratteristiche dello stesso, escludendo che i luoghi possano essere progettati unicamente dall’esterno. Nel riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale dell’identità culturale delle popolazioni che lo abitano, tale convenzione prescrive che le autorità pubbliche debbano salvaguardare gestire e pianificare il paesaggio attraverso azioni fortemente lungimiranti, volte alla conservazione e al mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un paesaggio, alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi. Ciò integrando il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche; e avviando procedure di partecipazione che tengano conto delle aspirazioni delle popolazioni per quanto riguarda le caratteristiche paesaggistiche del loro ambiente di vita.

Fatte queste premesse occorre ora riportare brevemente l’attenzione verso una serie di avvenimenti cruciali, conseguenti al sisma del sei aprile 2009, riguardanti l’imposizione di una tipologia abitativa d’emergenza avanzata dalla Protezione Civile attraverso il progetto C.A.S.E., e la successiva negoziazione di tale progetto con i poteri locali, in una trattativa sfociata nella possibilità concessa all’amministrazione comunale, a partire dal sindaco Massimo Cialente e degli addetti comunali all’urbanistica, di pre-determinare la localizzazione di tale progetto sul territorio del comune di L’Aquila, accettando senza riserve la tipologia progettuale proposta a livello nazionale.

Il progetto C.A.S.E. si affaccia sul terremoto dell’Aquila con una solerzia sorprendente, immediatamente dopo il sisma, nella forma di una L’Aquila2 promessa da Silvio Berlusconi. L’11 aprile 2009 le agenzie stampa riportano le dichiarazioni del presidente del Consiglio dei Ministri, scrivendo che «Berlusconi ha assicurato che la “new town” da costruire a fianco della vecchia città (“richiesta dal vostro sindaco”) non sarà un ghetto, ma anzi sarà costruita, “con il linguaggio architettonico locale”, sul modello di Milano2 e Milano3». Il sindaco di L’Aquila pare che invece non sia stato mai troppo entusiasta della new town di Berlusconi (e di Bertolaso), infatti già l’8 aprile su Omnibus (trasmissione dell’emittente La7) dichiara che «costruire una new town vorrebbe dire distruggere e abbandonare la città».

Il fattore chiave che definirà la base di quanto è ad oggi successo a L’Aquila si ha il mese dopo, quando la Protezione Civile accoglie i tre criteri dettati da Cialente: no alla New Town, distribuire sul territorio i nuovi insediamenti e localizzarli il più vicino possibile alle frazioni. Considerando che la tipologia dei complessi abitativi era stata già definita in termini di condomini accessoriati da corpulente piastre antisismiche (il cui progetto era già pronto nel cassetto della Protezione Civile) è già da qui che si delinea un reato contro il paesaggio. Il primo criterio dice no alla new town, a quel punto i condomini del progetto C.A.S.E. avrebbero potuto esser messi intorno a L’Aquila, ma questo non avviene; questa decisione non viene presa. Il sindaco ha usato il suo margine di decisione comandando di posizionare i condomini che avrebbero ospitato gli aquilani senzatetto, non usando i terreni in prossimità dell’Aquila, bensì quelli dei paesi. Dire «il più vicino possibile alle frazioni» è un modo scaltro per dire “il più lontano possibile dall’Aquila”.

Così la combinazione del secondo e del terzo criterio voluti dal sindaco ha comportato che il territorio di quasi tutti i paesi del comune dell’Aquila è stato occupato da un secondo borgo destinato perlopiù agli aquilani. È questo il nucleo di quanto è accaduto: da un lato l’amministrazione locale ha accettato una tipologia costruttiva imposta dallo Stato, dal lato opposto lo Stato ha accettato i vincoli localizzativi imposti dall’amministrazione locale; e questo configura il progetto C.A.S.E. - in circa la metà dei diciannove siti abitativi sviluppati a partire da esso – come un caso di corruzione politica perché, collocando complessi abitativi a connotati urbani in ambiti rurali (vale a dire costruendo condomini nei paesi) viene violata in molti luoghi la Convenzione Europea del Paesaggio. I paesi danneggiati dal sisma situati fuori dal comune dell’Aquila hanno avuto delle più adeguate casette di legno; per quelli nel comune del Capoluogo, già simbolicamente espropriati di autonomia e ridotti ad appendici attraverso l’uso dell’orrendo termine “frazioni”, niente casette, ma palazzine in quantità, per insediare perlopiù gli aquilani terremotati.

Poi bisogna chiedersi perché Cialente non ha voluto le case di emergenza che avrebbero ospitato in comodato d’uso gli aquilani vicino a L’Aquila. La ragione pubblica, propagandata non senza un certo talento demagogico alla cittadinanza, era di tipo identitario e secondariamente legata al preconcetto che le case in questione sarebbero state di bassa qualità; la ragione istituzionale e intima è stata di tipo economico-clientelare.

Per quanto riguarda il primo punto c’è da ricordare che L’Aquila2 era per Cialente una minaccia per la città, minaccia scongiurata scaricandola su Roio2, Camarda2, Sassa2, Assergi2, Paganica2 e via dicendo: molto “democraticamente” l’identità della città andava difesa sacrificando quella dei paesi del circondario, anzi, delle “frazioni”. Ma non è solo questo il punto, sotto questo grossolano e stucchevolmente vernacolare discorso identitario c’è di peggio.

Adombrando queste manovre con chiacchiere identitarie si è potuto giocare un progetto di tutela degli interessi particolaristi dei gruppi di potere aquilani. Durante tutta la fase di scelta dei siti e di costruzione di questi edifici molti esponenti dei poteri locali hanno spesso mentito, sbandierando all’opinione pubblica il “noi non abbiamo potuto fare niente”, ossia che le aree le aveva decise solo la Protezione Civile, e che quelli scelti erano i posti migliori, anzi gli unici, in quanto vicino a L’Aquila non si poteva costruire a causa di una concomitante scoperta di problemi idrogeologici e di antisismicità dei suoli. Casualmente, appena terminata la costruzione del progetto C.A.S.E., i risultati della micro-zonazione geologica fatta dalla Protezione Civile hanno sentenziato che quasi ovunque sarà possibile costruire: con una tempistica favolosa i vincoli idrogeologici e antisismici sono spariti dai terreni prossimi alla città. In questo modo tali proprietà, dopo essere state risparmiate dai feroci espropri per il progetto C.A.S.E., potranno tornare al clima che su di esse c’era prima del terremoto, se non a uno migliore: i terreni in questione sono quelli su cui da trent’anni tutti sanno che, come avviene in ogni altra parte d’Italia, è in corso una silenziosissima guerra di posizione tra imprenditori edili, politici e lobbies economiche finalizzata a operazioni speculative. Per qualcuno a L’Aquila il terremoto non c’è stato, anzi, ha portato fortuna. Gli amministratori aquilani, con grande onore per l’etica di sinistra alla quale dovrebbero rifarsi, hanno scelto di preservare l’interesse particolaristico dei proprietari dei terreni contro quello collettivo delle proprietà del territorio. Il pretesto dell’emergenza ha reso naturale una manovra politica difficilmente proponibile in altri tempi .

Quindi, in altre parole, il “patto Molotov-Ribbentrop” instaurato tra Protezione Civile e sindaco è riassumibile in questa linea: “noi facciamo le nostre case, tu tuteli i terreni di tuo interesse e poi ti prendi le case”. Bertolaso ha ammesso pubblicamente che la scelta finale dei terreni è stata fatta dalla Protezione Civile, ma, si badi bene, dopo una preselezione in cui - prima di tutto Cialente attraverso i suoi criteri, poi gli urbanisti del comune nel dettaglio – i poteri locali hanno indicato i terreni da preservare. Gli urbanisti della protezione civile hanno candidamente ammesso che per loro queste case era importante farle, il dove lo potevano anche far decidere al comune. Molti consiglieri comunali affermano di non aver avuto minimamente peso in questa trattativa tra Cialente, i suoi urbanisti e la Protezione Civile. Questi particolari sono però solo accessori, ripeto, il tutto è stato generato dal criterio ipocrita di posizionare questi condomini per gli aquilani terremotati vicino alla frazioni, ossia lontano dalla città.

Certo, poi qualcuno verrà anche a dire che in fondo a simili violenze sul territorio L’Aquila, come pure in varia misura l’Italia, era già ben abituata, anche senza terremoti. Quindi, figuriamoci se con quello che è successo ci dobbiamo mettere a pensare al paesaggio. Questo mi hanno risposto gli artefici del capolavoro urbanistico di cui qui scrivo. Il sistema di localizzazione del progetto C.A.S.E. non è altro che l’ennesimo episodio di gestione del territorio in base a una razionalità finalizzata più al profitto economico che al benessere sociale, in fondo non è niente di nuovo. Così va il mondo. No, questo non si può digerire, è così che si consente a scelte evitabili di presentarsi nel fatalismo della necessità; è accettando eventi come questo che, un po’ alla volta, sotterriamo il mondo.

L’Abruzzo aquilano ormai è terra di miracoli, e, come si sa, i miracoli sono quasi sempre fandonie propagandistiche. Un vero miracolo aquilano sta in luoghi come Camarda2, dove un mondo locale, che ancora riusciva ad essere genuinamente siloniano, si ritrova con il paese sconquassato dal sisma scoprendo sulla collina di fronte ad esso una grottesca metastasi condominiale, una delle diciannove eterotopie che compongono questo delirio di dispersione urbanistica su uno spazio rurale montano. In questa geografia della lontananza, portata dall’incrocio tra una catastrofe naturale e una cornice sociale abbandonata alle logiche di profitto, si configura un asse abitativo pieno di vuoti e di discontinuità improponibili (per farvi un’idea prendete una cartina dell’attuale comune e tracciate una linea tra Assergi2 e Pagliare di Sassa2: insediamenti radi su chilometri di verde separati da diverse montagne). Oggi il comune dell’Aquila è un territorio dove la forma della città - che di solito prevederebbe un nucleo abitativo con un anello di circolazione - viene invertita e stravolta in un anello abitativo rado con un nucleo fatto dai frantumi della città originaria congestionato da un perenne traffico di esuli locali.

A chi dovesse chiedere “chi ha fatto questo guazzabuglio?” non si può rispondere “il terremoto”, perché il pasticcio paesaggistico del progetto C.A.S.E. non è che il primo segno permanente del bradisismo della politica che al terremoto sta silenziosamente e imperterritamente seguendo. Non si può neanche rispondere che è stata “la Protezione Civile”, in base a un’ingenua visione che semplifica il tutto nel paradigma della barricata, dove i cattivi sono solo gl’invasori, e in loco tutti lottano per la collettività fuori da interessi privati. Il guazzabuglio del progetto C.A.S.E. è il prodotto di un intreccio di responsabilità congiunte tra Stato e poteri locali, l’esito di un patto di non belligeranza fondato sulla reciproca non ingerenza in questioni di profitto e clientelismo.

Essendo l’amministrazione comunale aquilana – almeno a parole - di sinistra e il governo nazionale di destra, questo groviglio mette in crisi i cliché di semplificazione ideologica delle dinamiche conflittuali, incapaci di concepire in sistema intrecciato di responsabilità che lega i poteri esterni con quelli locali, la sinistra con la destra. Il senso comune si nutre di semplificazioni da cui percolare sedimenti di folklore politico, e – non potendo tracciare una linea nitida e retta tra “buoni” e “cattivi” - una responsabilità non situata né geograficamente né politicamente non è facilmente digeribile in termini propagandistici. Qui questo movimento sotterraneo di interessi particolaristici generato dall’incrocio tra la politica del profitto di Stato e un clientelismo locale fissato su una concezione feudale dell’urbanistica intesa come mediazione tra lobbies economico-imprenditorili e amministrazione comunale, ha tolto le persone dai luoghi (deportandole lontano dalla città che chiede di essere curata) e i luoghi alle persone (deturpando la campagna con complessi condominiali).

Imporre delle scelte come necessità è la chiave della strategia di shock economy usata dal capitalismo dei disastri, e sono dell’idea che Bertolaso, o meglio il sistema postcoloniale di aiuti umanitari che egli rappresenta, non abbia pensato tanto a guarire L’Aquila nel modo migliore possibile per la città, quanto a imporle una cura basata più sulle sue convenienze.

Da altero comunicatore quale egli è, il nostro commissario del “fare” dichiarò giorni fa all’opinione pubblica che se lui vede un ferito per strada preferisce caricarlo subito e passare eventualmente con il rosso, centrando così un’ottima metafora di quella che è l’essenza della sua strategia politica: l’emergenza come pretesto per l’abuso di autorità. È così che questo personaggio riesce a ostentare un “fare” insieme concreto e fittizio, che si regge, più che sulle opere, su un “far vedere” solo la parte che conviene, nascondendo eventuali eccessi osceni del potere sotto la sineddoche massmediatica. Ora sul carrozzone di Guido Bertolaso grava il sospetto di corruzione, forse perché il commissario ha provato a fare il cowboy con gli americani, e di rimpiatto un simile oltraggio ha eroso la sua machiavellica attitudine a viaggiare in equilibrio tra lecito e illecito lungo la strada delle catastrofi, dove il fine più che mai giustifica i mezzi.

Seguitare a costellare il processo di ripristino della città con queste forme di corruzione concordata tra inciuci vari porterà ad aumentare il degrado del luogo; per questo è importantissimo, imprescindibile, vitale chiedersi sempre qual è la ratio delle scelte che vendono fatte, evitando di abboccare alla questione della necessità portata dall’emergenza. Il pretesto della necessità è stato usato all’Aquila sia dai poteri nazionali che dall’amministrazione locale, che – per riprendere la metafora del nostro - ha consentito a Bertolaso, oltre che di passare col rosso, di tagliare per la campagna. Sarà stato un misto d’ingenuità, confusione, incapacità, malaffare. I poteri sono anche questo, e le situazioni difficili peggiorano certe cose. Può darsi che non se ne erano accorti; d’altra parte anche il re di Francia, prima di subire la rivoluzione, pare fosse convinto di essere un buon regnante, e che il popolo era felice di lui e del suo operato.

Dopo aver spacciato per “ricostruzione” una costruzione di edilizia popolare d’emergenza che ha usato soldi pubblici per arricchire aziende private attraverso margini di profitto impensabili in tempi “normali”, L’Aquila si accinge ora alla ricostruzione “vera e propria”, che già si annuncia nella maggior parte dei casi nei termini di un’enorme corsa al rattoppo di edifici infartuati, in frantumi, in piedi per miracolo (altro “miracolo” vero avvenuto a L’Aquila). Millantando a chiacchiere sostenibilità varie per poi tradirle nei fatti, le migliaia palazzi e i condomini cittadini danneggiati al limite del crollo rischiano di venire rabberciati a vantaggio di ditte e imprese varie che, in luogo di demolirli, li sfrutteranno per anni come vacche da mungere. La corruzione appena compiuta riguarda l’incompatibilità paesaggistica della localizzazione del progetto C.A.S.E., e comprende una questione di illegalità rispetto alla Convenzione Europea del Paesaggio; quella prossima da venire riguarderà il rattoppo di una città mimetizzato entro false dichiarazioni di pseudo-sostenibilità, e di nuovi miracoli, stavolta fatti dalle fibre di carbonio. Le linee guida sulla ricostruzione saranno l’alambicco per cercare di conferire legalità a un crimine. Chi vivrà vedrà si dice, ma qui vedrà chi morrà nei condomini rattoppati durante il prossimo terremoto, fra uno, dieci, cinquanta o trecento anni. Questo discorso del rattoppo può essere qui solo accennato, ma va sottolineato che la localizzazione delle C.A.S.E. e il rattoppo dei condomini sono eventi che hanno in comune lo sfruttamento di un disastro ai fini del profitto privato e a discapito del benessere collettivo.

In conclusione non posso non ricordare che, a partire da qualche competenza acquisita da un po’ riguardo argomenti simili, ho immediatamente – ossia per primo e per tempo - denunciato alla popolazione, ai comitati, ai mass media e alle istituzioni locali e nazionali quanto qui, ancora una volta, riporto. Inutile precisare che, escludendo qualche paternalistica pantomima, ciò che scrissi ha avuto poca attenzione effettiva da parte di chi poteva decidere per rivedere alla radice la localizzazione del progetto C.A.S.E. (ossia cambiando il criterio della vicinanza alle “frazioni” in quello della prossimità alla città). Questo progetto ha visto durante l’estate due varianti alla localizzazione che hanno in parte avvicinato le palazzine alla città, ma, ripeto, almeno la metà dei siti costituiscono uno scempio paesaggistico imposto con la retorica della necessità, ma che si sarebbe potuto evitare benissimo.


Preciso che non sono contro la persona del sindaco Cialente, che a suo tempo votai, ma, pur sperando ancora di sbagliarmi, sono rattristato e amareggiato da una serie di perplessità intorno alle sue scelte, che purtroppo riguardano anche diverse altre gravi questioni oltre quelle qui menzionate. Per quanto riguarda Bertolaso personalmente, per usare un eufemismo, non riesco a stimarlo: il mio grazie va a chi ci ha aiutato, non a chi è venuto a L’Aquila prima di tutto per aiutarsi. Spero che gli aquilani la smettano di farsi abbindolare dai miracoli di prestigiatori nazionali e locali.

L’Aquila 15-2-2010

Antonello Ciccozzi