Raccolgo qui dei testi che ho scritto su alcuni aspetti della gestione del processo di (ri)costruzione della città dell'Aquila in seguito al terremoto del 6 aprile 2009.
Gli scritti, a partire da una visione critico-problematica basata su prospettiva di analisi antropologico-culturale, puntano a mettere in rilievo i momenti di ingenuità, disfunzionalità, corruzione, propaganda, speculazione, profitto che minacciano il futuro della città.

L'Aquila, 10 marzo 2010
Antonello Ciccozzi

lunedì 29 novembre 2010

MACERIE DI UNIVERSITA’, MACERIE DI DEMOCRAZIA, 29-11-2010


riporto il mio intervento al sit-in universitario di protesta contro il ddl Gelmini, tenuto a L'Aquila in zona rossa, di fronte la sede storica della Facoltà di Lettere e Filosofia

(pubblicato anche su: http://www.carta.org/articoli/19864,

e su: http://www.ateneinrivolta.org/università/macerie-di-università-macerie-di-democrazia)

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MACERIE:

Questi giorni l’Italia civile parla il linguaggio delle macerie. Le macerie sono un simbolo del degrado in cui versa lo Stato. Le macerie nascoste sono un simbolo dell’inganno della propaganda, dell’attitudine a omettere dai riflettori ciò che non va: quasi tutto.

Le macerie in Italia sono un simbolo, ma le macerie a L’Aquila sono un referente: L’Aquila è un serbatoio di segni che raccontano i meccanismi di un sistema di propaganda che è di tipo dittatoriale, anche se mimetizzato dentro parvenze democratiche. Per chi ha ancora occhi per vedere, trionfalismi del Governo a L’Aquila rivelano una realtà pericolante di subordinazione del sociale a strategie di profitto. Per questo L’Aquila invita l’Italia alla rivolta, a partire dall’Università, perché la cultura è una risorsa e un antitodo alla tirannia. Per questo l’Università dell’Aquila si rivolta.

INGANNO:

Il DDL Gelmini è un attentato al mondo della formazione, espressione di un Governo dell’inganno. Infatti, il ddl gelmini maschera nella veste della riforma una riduzione, una distruzione, una feudalizzazione del sistema nazionale della formazione. Una riforma è necessaria, ma non questa, e non possiamo permettere che tale necessità diventi un cavallo di troia per attaccare la scuola, per abbatterla, riducendola all’osso e al servizio del potere costituito. Il DDL Gelmini toglie risorse al mondo della formazione, lo precarizza, lo dispone alla privatizzazione, indebolisce gli atenei meno grandi; porta l’Università verso un’aziendalizzazione della conoscenza, che inevitabilmente scaturirà in un’irreggimentazione politica dei saperi. E poi, deve essere chiaro che è una bassezza propagandistica riprovevole far credere che questo DDL sia conto le baronie accademiche: le vere baronie accademiche appoggiano il decreto Gelmini, in quanto, se passerà, ne saranno ampiamente rafforzate.

SUDDITANZA:

In uno Stato democratico la società civile si deve opporre con tutte le forze al rischio della riduzione del sapere a strumento di regime. L’istruzione è, è stata, il mezzo per trasformare i sudditi in cittadini, viceversa così si apre la strada per riportare le masse alla sudditanza. Nei regimi oppressivi l’«ignoranza è forza»: siamo di fronte a uno scenario sostanzialmente orwelliano, propinato con un’ingannevole delicatezza. Le dittature vecchie e nuove – che siano basate più sulla violenza o più sulla finzione – hanno paura della conoscenza. Così, una dittatura mascherata da democrazia mimetizza dentro il rassicurante termine “riforma” un attacco demolitivo alla formazione finalizzato a rafforzare una grammatica di potere che ha bisogno della sudditanza.

ASSUEFAZIONE:

Questo regime dell’inganno si serve sistematicamente dell’assuefazione nei confronti di un processo generale di erosione della società da parte del profitto. L’opinione pubblica si è assuefatta a una strategia di stigmatizzazione con cui qualsiasi forma di dissenso civile viene degradata a irrazionalismo estremista. L’effetto più nefasto di quest’assuefazione al regime è l’aver prodotto un diffuso sentimento di perdita della speranza rispetto a un mutamento possibile: oggi l’alienazione parte dall’induzione della falsa coscienza che non vi sono alternative realmente praticabili.

RIVOLTA:

È per questo che, anche a partire dalle Università, è necessaria una presa di consapevolezza collettiva verso una rivolta culturale, oltre che politica.

Antonello Ciccozzi

L’Aquila 29-11-2010

sabato 20 novembre 2010

MIRACOLI E TELEMAGHI


questo è il testo del discorso che ho preparato per la manifestazione nazionale dell'Aquila del 20 novembre 2010 "macerie di democrazia"

ps.: link al video dell'intervento


(per questioni di tempo ho tagliato qualche passaggio)
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Vorrei fare mente locale sulla questione del miracolo aquilano, ma prima è meglio ricordare due notizie, perché sono importanti, e perché questo è un paese dalla memoria fragile:


la prima notizia data dai media nazionali è che non ci sarebbe stato nessun terremoto, in quanto essendo di fronte a un normale rilascio di energia potevamo stare tranquilli e bere un buon bicchiere di Montepulciano. Così dissero ai media - in mezzo a mesi di scosse continue - i vertici della protezione civile, nell’ambito della commissione nazionale grandi rischi.


la seconda notizia data dai media nazionali è che, dopo il terremoto che non doveva esserci, a L’Aquila c’è stata letteralmente una “ricostruzione esemplare” e questo titolava “il giornale” un po’ di mesi fa.


D’altra parte lo stesso Berlusconi ha ossessivamente parlato di ricostruzioni record, vantandosene in Europa. Due mesi fa dichiarò al quotidiano francese "Le Figarò" queste parole: «in tempo record abbiamo ricostruito un’intera città».


Poterle sparare così grosse e offensive senza ritegno in un certo senso è un miracolo, e a L’Aquila ci sono stati molti miracoli.


Il primo miracolo è stato dimenticarsi di oltre 300 vittime, che si sarebbero salvati se non avessero avuto quelle autorevoli rassicurazioni disastrose, in un’altra strage italiana che cerca di restare impunita

Poi c’è il miracolo che ci sono state solo oltre 300 vittime, che sarebbero potute essere 3.000 o 30.000, perché mezza città si è fermata al limite, e ancora resta sospesa sulla soglia del crollo totale, per puro caso. Sarebbe bastata una manciata di secondi in più.


E L’Aquila ha ancora la necessità e il dovere di elaborare un lutto, perché la rimozione è l’antitesi del cordoglio; e questo dovrà essere un tema nazionale, in quanto quelle rassicurazioni disastrose furono un fattore di concausa di una strage che non è solo la strage di un terremoto: c’è una complicità di Stato.



Un miracolo considerevolissimo, a cui miracolosamente non fa caso nessuno, è che dalla stessa commissione che ci diede quellerassicurazioni disastrose è venuta la direzione che ci ha propinato ilprogetto case. Ci siamo assuefatti al conflitto di interessi, e questo è un orrendo esempio di conflitto di interessi.


Così, arriviamo all’emblema del miracolo aquilano: il progetto c.a.s.e. che è un vero miracolo in quanto, nel mezzo di una situazione di crisi economica, grazie a un terremoto, l’egemonia dei grandi gruppi imprenditoriali nazionali ha potuto operare in condizioni miracolose, ossia:

- con enormi margini di profitto

- in deroga rispetto alle leggi

- in uno sfruttamento ottocentesco di masse di manodopera salariata


Attuata con costi esorbitanti, q

uesta soluzione ha dato alloggio alla metà degli aventi bisogno, lasciando una città (quella vera) imbalsamata e producendo uno scempio paesaggistico.


Anche nascondere le migliaia di sfollati non miracolati e i danni al territorio con cui dovremo fare i conti per decenni è un miracolo.


Un altro miracolo nel miracolo è stato far passare questa scelta come necessaria, migliore di tutte se non unica praticabile, mentre vi erano molteplici possibilità di housing alternative enormemente meno impattanti, enormemente meno costose e ugualmente confortevoli.


Queste soluzioni avrebbero ottimizzato la resa sociale del prodotto consentendo un risparmio del 3-400% rispetto al progetto imposto dalla protezione civile, ma non sono state scelte. Questo è un miracolo.



Un altro miracolo è quindi sostenere che per L’Aquila sono stati spesi tanti soldi, omettendo che la maggior parte di questi soldi sono finora finiti in tasche esterne all’Aquila. Ossia che - attraverso L’Aquila - poche persone hanno rubato tanti soldi, che l’aiuto è servito come pretesto per aiutarsi.


Un miracolo simile è che i soldi per la ricostruzione ci sono, ma dato che bisogna saperli chiedere, non ci sono; perché è colpa nostra che non sappiamo la formula dell’«apriti sesamo».


Poi a L’Aquila c’è un miracolo fastidiosissimo: mezza città è uscita indenne e rafforzata dal sisma, e mentre cannibalizza la parte ferita, difende politicamente i carcerieri che la imprigionano nel sistema dei commissariamenti e delle ordinanze. E’ QUESTO EGOISMO INTERESSATO; QUESTO SCIACALLAGGIO INTERNO, CHE IMPEDISCE UNA RIVOLTA GENERALIZZATA DELLA CITTA’.


E qui dobbiamo chiedere un sistema di sostegno che – non solo a L’Aquila, ma ovunque vi sia una catastrofe – esca da una visione indifferenziata del danno e corrisponda al dettaglio i bisogni rispetto alle necessità, perché non tutti sono terremotati allo stesso modo, e se non si comprende questo si produce tensione sociale.


Dobbiamo cacciare commissari e manager che impongono una governance esterna ed usano L’Aquila come pretesto per drenare profitto e orientarlo a gruppi affiliati al governo.



Torno al miracolo iniziale, quello della menzogna: un presidente del Consiglio che spara balle grosse come una casa, l’inganno sistematico elevato a strategia di consenso, il regime dello spettacolo: un governo di tele-maghi ci ha assuefatti a tutto questo e non abbiamo capito che i tempi delle emergenze locali parlano il linguaggio del tempo della normalità globale, di un mondo in cui le ragioni del profitto sovrastano quelle della società, dove la politica è orientata all’economia e non alle persone.



Insomma, i miracoli vanno capiti: i miracoli se funzionano salvano chi li riceve, ma basta che siano semplicemente raccontati per santificare chi li avrebbe compiuti. Questo a prescindere dal risultato, si può pure non guarire, ma se si grida al miracolo si sancisce la nascita di un guaritore. E un potere che si regge sulla rappresentazione di doti di guarigione è un potere primordialmente fondato sull’inganno.



L’Aquila è una città pericolante, comatosa, tutt’altro che guarita, evenire all’Aquila significa scoprire un inganno, e questo vale fuori da politicizzazioni o altri trucchi propagandistici con cui si stigmatizza un dissenso che è l’unica cosa civile di questa indecorosa storia italiana.



L’Aquila è ormai un termine del linguaggio nazionale, a cui dobbiamo ridare senso:

il progetto case ci parla lo stesso linguaggio di opere come l’inceneritore di Acerra, la TAV, il ponte sullo stretto: opere che servono più al profitto di ristrette egemonie che al benessere sociale, opere che si potrebbero evitare in quanto dannose, e in quanto sostituibili con alternative socialmente sostenibili che però vengono censurate in quanto meno redditizie.



Per tutto questo, nell’esigenza di ricordare vogliamo ridenominare la nostra via XX settembre in “via VI aprile”; e vogliamo chiedere all’Italia che la data del 6 aprile sia riconosciuta come “giornata nazionale per la prevenzione dei disastri”.


Perché questo paese ha la memoria fragile, mentre se non vogliamo perderci abbiamo bisogno di ricordare.


Dobbiamo ripartire dal 6 aprile.

venerdì 19 novembre 2010

DEMOCRAZIE PERICOLANTI: LA CATASTROFE DEL CAPITALISMO DA L'AQUILA A BERLINO 19-11-2010


intervento per la manifestazione nazionale dell'Aquila del 20 novembre 2010 "macerie di democrazia", pubblicato su:

http://www.carta.org/editoriali/19851

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Un terremoto ha reso L’Aquila una città pericolante. Ma non solo, oggi L’Aquila è anche un termine del linguaggio con cui la nazione si rappresenta, un termine a cui sono stati dati diversi significati. Forse per vari mesi i più praticati sono stati quelli di ‘emergenza’, ‘miracolo’, e, all’opposto, quello di ‘ingratitudine’. Rispettivamente del terremoto, del Governo, degli aquilani.

Invece venire a L’Aquila è aprire gli occhi su una città pericolante in mezzo alla rapsodia di cartongesso e cemento del progetto c.a.s.e.. E in questo scenario si legge una parola che forse dice tanto dei nostri giorni: ‘inganno’. Inganno evidente perché dietro quello che è stato venduto all’opinione pubblica come “miracolo aquilano” non c’è stata nessuna “ricostruzione esemplare”; inganno suggerito dal dubbio legittimo e imponente che l’aiuto sia servito anche come pretesto per praticare larghe strategie di profitto. Inganno nascosto dal bombardamento propagandistico dei media di regime. Inganno, poiché i “miracoli” solitamente sono finzioni, che cadono quando si smette di crederci.

E non si può accettare lo stigma dell’ingratitudine come minaccia per delegittimare il dissenso. Quello dell’Aquila è un grazie sincero, incondizionato ed eterno a quell’Italia che in questa tragedia si è scoperta solidale, in uno spirito che rappresenta quanto di meglio può esprimere la Nazione. Ma c’è una parte della città, che solo per comodità si può tacciare di politicizzazione, di gente che non ha mai creduto a certi vertici della macchina dell’emergenza, ponendo una ferma condanna contro chi è venuto a speculare sulla catastrofe, urlando contro il vento della censura e della propaganda.

C’è un dubbio enorme: che il progetto c.a.s.e. sia una truffa, in quanto ha veicolato un’operazione di speculazione edilizia, attraverso scelte costruttive artificiosamente presentate in termini di non plus ultra o addirittura di condicio sine qua non, e attuate a costi che paiono esorbitanti. Il progetto c.a.s.e. parla lo stesso linguaggio di opere emergenziali come l’inceneritore di Acerra: imposizioni fatte in situazioni di necessità escludendo alternative non solo praticabili, ma probabilmente assai più adeguate per la popolazione. Invece certe scelte non vengono praticate per ottenere il miglior risultato sociale possibile, ma per massimizzare i guadagni, in termini di propaganda politica e di profitto economico. Similmente il progetto c.a.s.e. dell’Aquila parla lo stesso linguaggio della crisi del lavoro: le aziende prima delle persone, l’economia prima della società.

È in questo modo che le opere emergenziali rimandano agli stessi codici di profitto che più sottilmente s’insinuano nella quotidianità dei tempi e dei luoghi normali. Le macerie dell’Aquila sono macerie metaforiche che rinviano ad altre macerie della democrazia, indicando l’inganno speculativo che fu imposto al mondo intero con il pretesto di un altro crollo: quello del muro di Berlino.

Accettiamo che i regimi comunisti avranno sbagliato su molti punti, ma l’inganno epocale fu far credere che il crollo del comunismo sovietico bastasse a legittimare come totale positività il modus operandi del capitalismo occidentale. Si tratta di un dispositivo manicheo di accusa scagionante, di un’algebra primordiale in cui, dalla demonizzazione di un sistema, si deriva la santificazione del suo opposto. In tal modo, dati gli errori di una dittatura che sottometteva l’uomo alla politica, ci si è chiusi in una dittatura che sottomette l’uomo all’economia. Così l’Occidente si è arreso ad un’economia che, santificando il concetto di “libero mercato”, sacrifica la società ad una politica del profitto. Proprio in tal senso oggi L’Aquila ci può svelare un principio generale rimasto nascosto sotto le macerie del muro di Berlino: il capitalismo del libero mercato non solo è sottrattivo, ma è anche distruttivo.

Mi spiego con un esempio: una signora mi diceva: “non ci possiamo lamentare se hanno mangiato sopra queste case, così va il mondo, li devi far mangiare e ti danno qualcosa”. È questo il punto dell’inganno, la prova dell’assuefazione a un sistema di mutuo scambio in cui si pone una relazione tra il polo della protezione sociale ridotta a elemosina e la contropartita del parassitismo aziendale elevato a dominio. Quando l’obiettivo si riduce alla sola massimizzazione degli utili, il prodotto subisce una degenerazione rispetto alla funzione: l’utensile degenera in paccottiglia. Il vampirismo che il libero mercato pratica sulla società non si basa solo sul prendere rispetto al dare: oltre alla questione dimenticata del plusvalore, c’è il problema dell’immissione di prodotti distruttivi; da condomini che deturpano il paesaggio a centrali nucleari che minacciano il futuro, tutto propagandato come necessità, censurando le alternative possibili. Questo processo si realizza incessantemente e a tutti i livelli: dalla forma di una città alle minutaglie consumistiche che, nell’indifferenza generale, sempre di più sommergono il quotidiano.

Si badi bene, questo non riguarda una mera considerazione teorica: siamo di fronte a un meccanismo di produzione di senso comune che da oltre due decenni agisce sulle masse ogni giorno. Pensiamo a quante volte nel linguaggio politico lo spettro del “comunismo” è ancora evocato per convalidare la dittatura del capitalismo. È questo manicheismo contrappassistico, in cui il supporre che gli errori di una parte possano significare la bontà del suo opposto, che ha portato all’affermazione in tutto il mondo di una tipologia di regnanti di cui Berlusconi è solo l’esponente più caricaturale. Siamo nelle mani d’interpreti di una visione culturale della società che non è votata all’estensione del benessere, ma all’intensificazione di guadagni e privilegi.

Potrà sembrare eccessivo, ma, più volte sorge il sospetto di essere dentro un nuovo medioevo globale intessuto di reti di affiliazione intorno a potentati economici, in un arroccamento che rischia di rivelarsi preludio dell’estinzione di fronte all’ossimoro di un mondo che, mentre chiede benessere, brucia sempre più energia ed esplode di persone. Bisogna chiedersi quanto può durare una risposta fondata su un’idea protettiva del potere che parla di una (ri)feudalizzazione dell’umano, sotto un signoraggio che si legittima promettendo di difendere da catastrofi e da invasioni, che ancora intrattiene nei confronti della natura e delle moltitudini subalterne relazioni di predazione e di riduzione alla schiavitù.

Quello che deve destare preoccupazione è l’assuefazione del senso comune al principio della massimizzazione degli utili economici contro quelli sociali. A L’Aquila fummo vittime di una sorta di “assuefazione da bombardamento” rispetto a un perdurante sciame sismico,e cademmo nella trappola di una serie di rassicurazioni disastrose date da una commissione nazionale grandi rischi. Similmente la nostra società si è assuefatta alla cornice di potere della dittatura della massimizzazione dei profitti, nascosta dietro il rassicurante termine ‘libero mercato’.

L’Aquila parla il linguaggio della catastrofe, del presagio di un mondo pericolante, perché nei luoghi dell’emergenza il lato oscuro dell’ordine costituito si rivela come eccesso osceno in cui si possono decifrare i segnali di una crisi che è sistemica. L’Aquila ci dice che solo una rifondazione del sociale incentrata su un patto culturale può salvare una speranza di futuro dall’invasione del profitto; L’Aquila ci parla della necessità di una progettazione delle esistenze in cui politica ed economia siano orientate su percorsi sostenibili, capaci di riportare all’uomo.

E in tal senso va chiarito che non si tratta tanto di stare a questionare sulla proponibilità etica dello “stato d’eccezione”, rischiando l’inviluppo nel pret-a-penser filosofico. Il punto è fare un passo avanti per comprendere e contestare l’uso politico che dello “stato d’eccezione” viene attuato dal nostro ordinamento economico: la situazione emergenziale, naturalizzando un contesto di dominio in cui lo stato di necessità tende a opprimere la possibilità di scelta, si pone pre-testo per imporre egemonie pure, entro relazioni di potere di tipo post-coloniale, in cui l’aiuto diventa uno strumento di profitto e – riflessivamente – l’intenzione di profitto deteriora la forma dell’aiuto. Ciò non fa altro che mostrare in modo esasperato quello che è un meccanismo costitutivo del capitalismo che in tempi normali erode silenziosamente la società: il vampirismo del profitto sulla funzione del prodotto.

Oggi L’Aquila è un luogo paradigmatico, che deve dare senso anche ai concetti di ‘inganno’ e ‘cambiamento’, spiegando una consapevolezza e una volontà rispetto a una normalità che è assuefazione quotidiana; e che bisognerebbe rivedere fino alle fondamenta, perché fondamentalmente pericolante. Oggi L’Aquila parla il linguaggio del rischio di una catastrofe globale.

L’Aquila, 19-11-2010



NARRAZIONI SULLA CATASTROFE E TRANELLI SCIENTIFICO-IDEOLOGICI, 14-9-2010

questo testo contiene una replica a delle obiezioni che ho ricevuto a seguito del mio intervento sui rischi di asservimento ideologico delle istituzioni scientifiche (il testo “Terremoti: dalle stupidaggini scientifiche agli stereotipi culturali"). La polemica è partita dalle pagine de "Il Messaggero" e del sito abruzzo24ore.tv, dove sono reperibili tutti gli elementi, strascichi compresi:
http://www.abruzzo24ore.tv/news/Catastrofe-e-tranelli-scientifico-ideologici/18612.htm


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Le accese risposte a un mio intervento, da parte di un responsabile del PD locale (Giulio Petrilli) e di un dirigente dell’INGV (Warner Marzocchi), meritano una replica; questo per dovere di chiarimento rispetto ad alcuni fraintendimenti e scorrettezze argomentative. Questo precisando che, se l’elaborazione di dati sui terremoti è ovviamene compito di geologi e sismologi, la discussione sull’uso sociale degli stessi è questione prettamente socio-antropologica, specie per quanto riguarda il rischio che tali informazioni vadano a costituire la materia prima per la costruzione di stereotipi culturali.

Se Petrilli avesse letto con attenzione avrebbe costatato che ho scritto che quello che ritengo inaccettabile è attribuire i danni del terremoto esclusivamente a fattori di cattiva costruzione. “Esclusivamente” vuol dire che la cattiva costruzione è un fattore, ma non il solo. Questo è il punto centrale, e non è questione di mettere “la testa sotto la sabbia” (l’uso di quest’espressione mi sorprende, in quanto mi sembra più appropriata per descrivere il comportamento che molti politici locali hanno adottato nei confronti del Governo per più di un anno). Semmai starei attento a non gettarci del fango addosso con le nostre mani, importando distrattamente visioni pseudo-scientifiche che rafforzano stereotipi che ci aggrediscono già da mesi. La carenza nella costruzione degli edifici è un fattore, ma lo è insieme all’intensità dello scuotimento: attribuire tutto alla qualità scadente delle costruzioni non è corretto.

Per meglio comprendere questo punto occorre a questo richiamare con forza un principio cardine della disastrologia, che ci dice che il danno dipende, appunto, dalla combinazione tra l’intensità fisica dell’evento naturale e gli elementi di vulnerabilità sociale (quali ad esempio la qualità delle costruzioni). Questo principio dimostra che non si può ridurre l’esito di un cataclisma esclusivamente a fattori di vulnerabilità, ma che – viceversa - questi sono al contempo una concausa necessaria che determina il danno finale. Azzerare la vulnerabilità di un luogo può essere un obiettivo asintotico per azzerare il rischio; ma a evento avvenuto, rappresentare tale vulnerabilità in eccesso può essere un modo per sminuire la misurazione della forza fisica dell’evento e scaricare eventuali responsabilità. In uno scenario in cui un’istituzione scientifica produsse rassicurazioni che si rivelarono di fatto catastrofiche, sarei molto prudente su questo punto. Forse qualcuno ha bisogno dello stereotipo del terremotino per scaricare una serie di responsabilità. In tal modo non si vuole assolutamente omettere il problema dei crolli, ma si vuole quantitativamente ricondurre a una visione più realistica delle peculiarità del sisma aquilano: in luogo di crolli sporadici la dovremmo finire di raccontare la città come se fosse tutta in macerie, e iniziare a comprendere che, purtroppo, la città è perlopiù pericolante; ma quasi sempre ci ha salvato da un terremoto tremendo, che, come ho scritto subito dopo il sisma, ha causato oltre 300 morti ma ha anche risparmiato circa 100000 vivi.

La Casa dello Studente è uno scandalo, ma L’Aquila intera non è la Casa dello Studente. Se vogliamo evitare di subire l’attribuzione stereotipi che fanno comodo a chi si deve pulire la coscienza perché ci ha rassicurato di stare al letto, senza nel contempo rimuovere elementi problematici dalla rappresentazione sociale del sisma, dovremmo essere in grado di raccontarci accogliendo entrambe questi elementi – l’intensità e la vulnerabilità – entro la narrazione collettiva dell’evento. L’Aquila ha subito uno scuotimento temendo ma ha riportato crolli sporadici. In vari convegni è stato comunicato dagli addetti ai lavori che a Pettino si è avuta un’accelerazione media di 0,68G con un fattore di amplificazione pari a 2, e questo come forza di scuotimento effettiva (superiore a 1G) colloca il terremoto come il peggiore evento italiano degli ultimi 95 anni. Tale visione è molto lontana dallo stereotipo della città di catapecchie distrutta da un terremotino, rappresentazione dalla quale i cittadini devono difendersi; rappresentazione già circolante nell’immaginario nazionale e che può venire rafforzata da modelli pseudo-scientifici quale può essere una comparazione omissiva della variabile della distanza dall’epicentro.

Rispetto al prof. Marzocchi, ribadisco che ho basato la mia critica su due punti, precisi, e che enuncio di nuovo per chiarezza, poiché se egli vuole controbattere alla mia tesi, ha il dovere deontologico di attenersi agli enunciati che ho espresso, non manipolarne l’ambito referenziale con modesti espedienti retorici:

1) è inappropriato comparare due terremoti omettendo il parametro della distanza dei luoghi colpiti dall’epicentro del sisma

2) la scala Mercalli non misura l’intensità del movimento ma i danni sulle costruzioni

Marzocchi asserisce che si tratta di analisi “sbagliate”, lo fa entro una cornice comunicativa assai veemente, che pertanto indurrebbe il lettore a pensare che io abbia portato delle affermazioni totalmente infondate. Stando a questa posizione di severo aut-aut consegue che Marzocchi riterrebbe attendibili affermazioni come:

1) è appropriato comparare due terremoti omettendo il parametro della distanza dei luoghi colpiti dall’epicentro del sisma

2) la scala Mercalli misura l’intensità del movimento

Certo, di fatto egli sul primo punto mi dà poi celatamente ragione dicendo che “la distanza epicentrale può essere importante”. Sarebbe bello capire quanto egli pensa che possa essere importante, visto che qualsiasi modello si costruisce in base alla definizione di variabili e alla definizione della rilevanza delle stesse. Così Marzocchi, mentre si scandalizza platealmente, riconosce che l’analisi del geologo gallese omette una variabile, ma non chiarisce quanto rilevante questa sia. Sospetto che la rilevanza della variabile “distanza” nella valutazione comparativa tra due sismi sia prioritaria rispetto al rischio di deformare il paragone, dando un’immagine ridotta dell’intensità del sisma aquilano. Questa tendenza alla riduzione dell’intensità del sisma aquilano è stata spesso praticata - a partire dalla magnitudo – ed è confermata dallo stesso Marzocchi, che dichiara che il sisma di Haiti sarebbe stato 30 volte più “grande” di quello dell’Aquila, quando invece la differenza è di 11. L’abitudine a limare certi dati sempre nella stessa direzione è di per sé un dato; un dato inquietante da un punto di vista socio-antropologico. Pare che qualche scienziato si alleni all’uso della lima, forse in prospettiva di prossime applicazioni pratiche di tale utensile.

Riguardo alla seconda questione, quella sulla scala Mercalli, Marzocchi mi risponde scavalcando il referente della mia affermazione: egli sostiene che la mia critica «è sbagliata» solo controbattendo che tale scala «è stata calibrata per “classificare” il danno agli edifici» ma viene usata anche «per produrre in tempo reale scenari di danni probabilistici». La questione dell’intensità di movimento non è nemmeno nominata. Probabilmente non ho inteso, ma non mi sembra un buon esempio di quella “qualità dell’informazione scientifica” che Marzocchi raccomanda.

Ho però l’impressione che il fastidio e la preoccupazione del dirigente derivi non tanto dal valore delle mie analisi, ma dal fatto che il mio discorso seguirebbe «un anno e più di critiche piovute sul mondo scientifico». Mi pare che il vero punto dolente sia questo. Prima di tutto vorrei far notare che le critiche in questione non hanno come oggetto genericamente il “mondo scientifico”, che mi auguro il dirigente non voglia sussumere per intero, ma perlopiù l’ambito specifico della qualità delle analisi prodotte dalla Commissione Grandi Rischi, di cui l’INGV fa parte. In proposito sarei poi prudente nel lamentarmi riguardo a presunte “supponenze” e “offese”. Ciò in quanto si ha l’impressione assai diffusa che alcune supponenti stupidaggini ammantate di (pseudo)scientificità concausarono, a partire da una serie di rassicurazioni disastrose”, la concretissima offesa di oltre trecento morti. Comprendere la formula di disastrologia che ho ricordato sopra può aiutare a capire che, posto che i danni da catastrofe dipendono anche e necessariamente dalla vulnerabilità sociale, questo fattore può essere eventualmente aumentato da scienziati che, in certe circostanze, producono messaggi erroneamente rassicuranti. O Marzocchi ha colto l’occasione per dare ad intendere che la colpa fu solo dei giornalisti che diedero male il comunicato?

Qui non c’è lo spazio per proseguire, comunque – dato che già mi sono occupato della questione delle “rassicurazioni disastrose” – mi riservo la facoltà di tornare in altre sedi in dettaglio sul tema; proprio riprendendo alcuni passaggi del testo di Marzocchi che ora non ho potuto discutere, ma che pongono seri dubbi sui rischi di asservimento di una (pseudo)scienza a forme di controllo politico-ideologico.

L’Aquila 14-9-2010

sabato 11 settembre 2010

TERREMOTI: DALLE STUPIDAGGINI SCIENTIFICHE AGLI STEREOTIPI CULTURALI 9-9-2010

le analisi scientifiche configurano elementi di riferimento per la formazione del senso comune sugli eventi. In certi casi, nel dopo-terremoto aquilano, la (pseudo)scienza assolve, in maniera più o meno indiretta, la funzione di costruire o puntellare stereotipi che offendono la città e, circolarmente, legittimano una strategia di speculazione postcoloniale sull'emergenza.

(uscito su: http://www.abruzzo24ore.tv/news/Terremoti-stupidaggini-scientifiche-e-stereotipi-culturali/18556.htm)

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Leggendo l’articolo del geologo gallese Gareth Fabbro su una comparazione del terremoto dell’Aquila con quello recente di Chirstchurh sono rimasto allibito (http://www.science20.com/tuff_guy/christchurch_earthquake_vs_laquila_earthquake;

tradotto su: http://www.ilcapoluogo.com/site/News2/Attualita/Christchurch-e-L-Aquila-un-intimo-confronto-tra-due-terremoti-devastanti).

Quest’articolo non ha nessun valore scientifico, anzi, riporta – nel forzare una visione eccessiva che riporta danni diversi a partire da cause uguali - un cumulo di stupidaggini. Ciò in quanto pone una comparazione che omette uno dei parametri più importanti: la distanza dall’epicentro: mentre Christchurch si trova a 50 km dall’epicentro, L’Aquila si trova proprio sopra l’epicentro del terremoto che l’ha devastata (l’epicentro ha riguardato una linea tra Roio e Paganica, che vede la città dell’Aquila proprio in mezzo). Non a caso la scala di misurazione degli eventi sismici in uso in Giappone (scala Shindo) considera tale parametro fondamentale per misurare l’energia reale che ha investito i luoghi, in quanto la stessa varia in maniera decisiva proprio in base alla distanza dall’epicentro. Se si considera la distanza lineare di 50 km dal terremoto dell’Aquila si arriva a Rieti o a Teramo, città che non hanno avuto nessun danno. Spacciare analisi come quella di Gareth Fabbro come scientifiche equivale a far credere la gente all’esistenza di babbo natale. Il solo dato rilevante che tale articolo mostra è l’attitudine a produrre disinformazione intorno a certi eventi, l’incompetenza di certi esperti, e la credulità della gente.

L’incompetenza degli addetti ai lavori nel campo dei terremoti lascia spesso esterefatti, proprio riguardo questo caso, proprio nel cercare il parametro della distanza dal sito dell’INGV, ho trovato questa dichiarazione: «prime stime sull'esposizione della popolazione al movimento forte indicano che circa 4000 persone sono state esposte ad intensita' del VIII-IX grado Mercalli. La citta' di Christchurch (~360.000 abitanti) avrebbe sofferto il VI grado Mercalli» (http://cnt.rm.ingv.it/data_id/8213921950/event.php). È incredibile che chi scrive questo non ricordi che la scala Mercalli non misura affatto l’intensità del movimento, ma gli effetti sulle costruzioni. Anche quest’informazione che parrebbe riportare i dati a una maggiore correttezza è infondata da un punto di vista scientifico, e viene da autorità scientifiche.

Da un punto di vista antropologico-culturale va poi sottolineato che il problema di queste fandonie è che – attraverso processi di diffusione culturale - diventano foraggio mentale con cui si produce senso comune sugli eventi. Infatti, nel nostro caso un certo tipo di letteratura pseudo-scientifica rafforza il pregiudizio in base al quale i danni del terremoto aquilano siano attribuibili esclusivamente a fattori di cattiva costruzione, ossia locali, seguitano ad alimentare l’idea del “terremotino”, portando un guasto all’immagine della città.

L’Aquila, 9-9-2010

lunedì 12 luglio 2010

DAL SENSAZIONALISMO MIRACOLISTICO AGLI STEREOTIPI NEORAZZISTI 10-07-2010

una serie di considerazioni sulla repressione governativa della manifestazione della popolazione aquilana a Roma del 7 luglio 2010, con una rassegna delle ragioni locali riguardo l'espressione di dissenso.

(pubblicato su:
- "Carta settinamale" del 16 luglio 2010
- http://www.abruzzo24ore.tv/news/Dal-sensazionalismo-miracolistico-agli-stereotipi-neorazzisti/17568.htm)

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DAL SENSAZIONALISMO MIRACOLISTICO AGLI STEREOTIPI NEORAZZISTI: PER UN’ANATOMIA DEL SISTEMA DI PROPAGANDA GOVERNATIVA INTORNO ALL’EMERGENZA AQUILANA



NOGLOBAL E POLIZIOTTI LEGITTIMAMENTE INFILTRATI TRA COMUNI CITTADINI CONTRO IL GOVERNO


Certo, c’erano i “noglobal” alla manifestazione dei terremotati aquilani. C’erano. Saranno stati il due o tre per cento dei manifestanti, erano insieme a tutte le altre categorie socio-culturali che compongono la varietà civile di una città. A spingere contro i reparti antiterrorismo che bloccavano illegittimamente il passaggio di una manifestazione autorizzata c’erano anche i “no global” aquilani; sono i più abituati a un trattamento che nessuno si aspettava e perciò erano “in prima linea”, un metro o due poco avanti rispetto a casalinghe, pensionati, e anche a poliziotti aquilani. Poliziotti esasperati come gli altri loro concittadini. Poliziotti contro poliziotti, questo è il dato più singolare di quel giorno: non ci poteva essere manifestazione più trasversale di quella con la quale migliaia di aquilani sono andati a Roma il sette luglio 2010 per chiedere equità e diritti, prendendo qualche manganellata che puzza tanto di prova per l’estensione alla società civile di codici di regime fondati sul linguaggio del manganello, solitamente riservati all’antagonismo eversivo.

Tuttavia i manganelli non sono la cosa peggiore: L’Aquila manifesta il suo dissenso ancora una volta, da un anno; e, ancora una volta, la città continua a subire pratiche di disinformazione e gravi stereotipi offensivi che sempre di più puzzano di neorazzismo. Perciò, ancora una volta va precisato che, da subito dopo il terremoto, abbiamo assistito a una serie di processi massmediatici di controllo dell’opinione pubblica sull’evento che vale la pena ripercorrere elencandoli in un’anatomia sintetica degli elementi che compongono il sistema di propaganda che determina la narrazione governativa dell’emergenza aquilana; visto che certi fatti - se raccolti in sequenza - fanno un altro effetto.




L’ESPROPRIAZIONE SIMBOLICA DELL’EVENTO


Deve essere chiaro che tra Potere e interpretazione vi è una sostanziale identità: il Potere è il potere di attribuire senso agli eventi; e a L’Aquila la manipolazione della catastrofe inizia dal momento in cui la città è privata della possibilità di dare senso all’evento, in un’espropriazione simbolica che è la premessa per il controllo del processo in generale.

L’espropriazione simbolica dell’evento è avvenuta a partire dall’abbassamento della magnitudo a 5.8 gradi Richter, rispetto alla media di 6.3 gradi Richter dichiarata degli istituti sismologici di tutto il mondo. Al di là della diatriba tra magnitudo Momento e Richter, l’informazione italiana si è fatta con il valore 5.8; e l’idea di una magnitudo bassa fomenta l’idea che i danni ci siano stati per colpa delle costruzioni fatte male, per colpa degli aquilani: “chi è causa del mal suo pianga se stesso”. L’attribuzione di colpa a livello locale esonera simbolicamente lo Stato da oneri di sostegno e da responsabilità concrete della Commissione Nazionale Grandi Rischi.

L’espropriazione simbolica dell’evento si è prefigurata attraverso le rassicurazioni disastrose - totalmente infondate dal punto di vista scientifico - comunicate dalla Commissione Nazionale Grandi Rischi prima del sisma alla popolazione aquilana (che indussero la cittadinanza a restare al letto, concausando un alto numero di vittime, che per puro caso non è stato molto maggiore).

L’espropriazione simbolica dell’evento si è consolidata attraverso la denominazione “terremoto d’Abruzzo” favorita da politici vassalli del governo Berlusconi, probabilmente finalizzata al tentativo di profitto della Regione contro le zone realmente terremotate. Basti pensare che il presidente della regione Abruzzo Chiodi ha da subito dichiarato che “il terremoto riguarda tutto l’Abruzzo”; e che il neoeletto presidente della provincia dell’Aquila, Del Corvo, ha scritto, nella parte di programma elettorale che non ha copiato (come ha dovuto ammettere), che: “la ricostruzione non è soltanto un’esigenza delle aree del cratere, perché tutta la Provincia soffre per problemi che risalgono a prima del terremoto”. Entrambe i politici sono Berlusconiani e non residenti nelle aree terremotate. Il dubbio è forte e lecito.




LA SPETTACOLARIZZAZIONE PROPAGANDISTICA DEGLI AIUTI


La trovata sensazionalistica del “miracolo aquilano” induce a pensare all’intervento di aiuto come un fenomeno inedito per modalità ed efficienza, mentre la storia della civiltà occidentale si misura da secoli con pratiche di aiuto portate verso i luoghi colpiti da catastrofi naturali; pratiche storicamente dettate a partire dal principio fondativo dell’unione dei battezzati nel corpo mistico di Cristo. Se c’è una costante è l’aiuto, quello che varia sono le forme storiche, dove la differenza la fa il grado di sviluppo tecnologico, assai meno la disposizione morale dei poteri costituiti che presiedono agli interventi. Il “miracolo” è una finzione propagandistica che inizia proprio nella pretesa di unicità storica dell’azione istituzionale.

La politica della carità messa in campo con lo spettacolo della beneficenza ha saturato l’opinione pubblica riproducendo immagini ridondanti di aiuto, che danno un’impressione risolutiva distogliendo dalla reale proporzione delle necessità economiche (dato che per la ricostruzione vera saranno necessari molti miliardi di euro, non è onesto propagandare, ad esempio, un milione di euro raccolti da uno stuolo di cantanti, che tra l’altro si celebrano con la beneficenza, come se fossero un aiuto fondamentale, risolutivo; come per dire “adesso i soldi li avete, non vi lamentate”). Non servono briciole ossessivamente amplificate da strategie di spettacolarizzazione in prima serata; ma, come negli altri terremoti, c’è bisogno di aiuti di Stato adeguati e senza eccessi sensazionalistici. E’ in sé riprovevole fare di un’emergenza sociale uno spettacolo televisivo.

La pretesa di parlare sistematicamente di “ricostruzione esemplare”, per designare l’installazione di abitazioni di emergenza su costosissime e inutili piastre antisismiche imposte dalla Protezione Civile (che le aveva progettate), propinando all’opinione pubblica l’idea di una situazione risolta, quando la città è ancora del tutto annientata.

L’idea che le case imposte dal Governo siano incommensurabilmente migliori delle soluzioni d’emergenza adottate in passato si fonda sulla censura di una miriade di altre tipologie costruttive prefabbricate messe a disposizione dalle attuali tecniche di housing, altrettanto sicure, veloci e confortevoli e più economiche; e soprattutto si regge su una volgare modalità destoricizzazione messa in atto nella valutazione dell’edilizia d’emergenza usata in altre epoche (e quindi in base a livelli inferiori di sviluppo delle disponibilità tecnologiche): in sostanza è come paragonare una Cinquecento di oggi con una di quarant’anni fa. Da secoli i governi intervengono sui luoghi terremotati costruendo case di emergenza. Non si discutono le case, in un banale e inammissibile “prendere o lasciare”, ma l’imposizione di una tipologia costruttiva, i suoi costi e i sospetti di speculazione sugli aiuti. L’alternativa non è solo tra le case del “progetto c.a.s.e.” e i containers dell’Irpinia (va notato infatti che questo modo di ragionare grettamente binario è la cifra della logica che regge qualsiasi ideologia dittatoriale: è l’esclusione di terze possibilità la premessa per l’imposizione assolutistica di scelte opinabili).




LO SFRUTTAMENTO DEGLI AIUTI PER FINALITA’ DI PROFITTO


In tal senso l’aspetto più eclatante è dato proprio dal costo spropositato dell’edilizia d’emergenza: quasi tremila euro a metro quadro (l’ing. Calvi della Protezione Civile, il progettista, dichiarò in televisione 2400 euro a metro quadro, ora dice 1300, da molte fonti si deducono oltre 2800 euro a metro quadro). Questo pone il punto del profitto ottenuto attraverso a tragedia di migliaia di persone, grazie a costossissime forme abitative imposte millantandole come unica soluzione, tra molte scelte possibili assai più economiche ma occultate. Edifici costruiti sfruttando i soldi della beneficenza e della Comunità Europea; e la manodopera a basso costo e senza diritti consentita dall’emergenza. Una manna per i fortunati imprenditori che hanno potuto accedere agli appalti. Una casa così (in comodato d’uso, non regalata, come spesso pensano gl’italiani) può sembrare bella, ma se si guarda bene il rapporto qualità/prezzo di questi condomini in cartongesso, lo scempio paesaggistico prodotto in almeno metà dei diciannove siti, e le alternative che si sarebbero potute praticare, è disgustosa. Questo supposto “miracolo” poteva costare tre volte di meno e dare un tetto a tutti. Invece si è scelto di massimizzare il profitto, non l’utilità sociale; ecco cosa c’è dietro il miracolo. Deve essere chiaro che un alloggio d’emergenza dopo una catastrofe naturale non è un miracolo, ma una forma di realizzazione di una prassi storica antica come la nostra civiltà (e su cui, in ultima analisi, è la civiltà stessa che si misura, in opposizione alla barbarie e alla tirannia).

Poi, più in generale si deve accennare ai costi enormi della macchina della Protezione Civile, costi articolati in una quantità di livelli e forme, dei quali - a cominciare da particolari minimi come le giacche a vento in dotazione delle truppe - da più parti è stata dimostrata l’enorme plusvalenza ottenibile con il pretesto emergenziale. Va ripetuto che - ad un anno dal sisma - i soldi spesi per L’Aquila provengono quasi esclusivamente dai fondi messi a disposizione dalla Comunità Europea, e dalla beneficenza di singoli cittadini e di enti pubblici. Il Governo finora non ha speso - se non in minima parte - soldi di Stato, e questa è la differenza reale rispetto agli altri terremoti. Troppi indizi lasciano già pensare che il Governo ha finora approfittato della beneficenza degli italiani e dei fondi europei per drenare profitto attraverso catene di mediazione gestite da soggetti affiliati al potere costituito, in cui si assiste alla compresenza ambivalente di aiuto e parassitismo, di solidarietà e sciacallaggio, di sostegno e profitto. Il punto è che un governo che si dichiara “democratico” non dovrebbe permettersi di offendere una città attraverso pratiche di postcolonialismo intrastatale finalizzate alla speculazione e alla propaganda, che si innestano mimetizzandosi su processi di aiuto umanitario; e non dovrebbe imporre tali pratiche con un ricorso sistematico alla propaganda, alla censura, allo stereotipo.




LA MANCANZA DI EQUITA’ RISPETTO AD ALTRI DISASTRI NATURALI ITALIANI


A quanto pare non se ne parla proprio di concedere a questo terremoto una tassa di scopo o altre forme di prelievo stabili dalle casse dello Stato, come è avvenuto per le altre catastrofi simili. L’Aquila è - al passo con i tempi - una città precaria, ingabbiata in una ricostruzione co.co.co. finalizzata prima al profitto di soggetti esterni che al bene del luogo. Per L’Aquila finora il Governo ha deciso che da parte dello Stato ci sono lotterie, gratta e vinci, e cantanti in odor di beneficenza (e in cerca di gloria).

Le agevolazioni fiscali concesse ai terremotati costituiscono una pratica plurisecolare di aiuto, basti pensare che trecento anni fa a seguito di un terremoto disastroso il viceré riconobbe agli aquilani l’esenzione dalle tasse per 12 anni, senza restituzione. Ora a L’Aquila tutti ricordano che per il terremoto dell’Umbria-Marche è stata accordata una sospensione per 10 anni con una restituzione del 40% in 120 rate; mentre la richiesta di restituzione fiscale per gli aquilani è stata fissata al 100% dopo un anno dal sisma, da restituire in 5 anni. Solo dopo la protesta romana ci siamo assestati ad ora al contentino di passare da 5 a 10 anni. Un contentino che suona come offesa. E’ in tal senso che a L’Aquila si chiedono equità e diritti, cose ben lontane da parossismi dettati dalla disperazione.

Qualcuno ha detto che durante gli altri terremoti non c’era la crisi economica di oggi, quindi il paragone non sarebbe lecito. A parte che si potrebbe obiettare che la crisi dovrebbero pagarla i ceti più abbienti e non chi subisce disastri naturali, c’è in questo caso un particolare scabroso e inaccettabile: per il recente alluvione di Alessandria la sospensione delle tasse comporterà la restituzione del 10% in 10 anni. Altro che Nord virtuoso e Sud Cialtrone.

SULLO STREOTIPO NEORAZZISTA CHE OFFENDE UNA CITTA’ FERITA

Troppo spesso politici di regime e organi d’informazione filogovernativa insistono con stereotipi riconducibili allo schema del “Sud cialtrone” contrapposto al “Nord virtuoso”, attribuendo tutta la colpa dei problemi attuali all’inefficienza dell’amministrazione locale, in un dispositivo di accusa scagionante del Governo e dei suoi affiliati (sia chiaro: ci sono problemi che riguardano l’amministrazione locale, ma il riconoscerli è altro rispetto all’assolutizzarli). E L’Aquila si ritrova dentro questa becera e del tutto manichea ripartizione di moralità. Ancora una volta salta fuori lo stereotipo del paragone con il Friuli. Da tempo si sente che a gli aquilani subito dopo il terremoto erano “come i friulani, che si rimboccano le maniche e si danno da fare”, mentre poi sarebbero diventati “come gl’irpini, che stanno con le mani in mano e pretendono aiuti”. È proprio la pigrizia mentale insita in questo ridondante ricorrere a una tematica fissa che è il primo indice di stereotipia.

Ancora una volta i cittadini aquilani devono sorbirsi questa comunicazione del tutto ingiuriosa. Il 9 luglio il quotidiano “Il Giornale” ripercorreva per l’ennesima volta questo stereotipo attraverso la gretta generalizzazione neorazzista secondo cui “le popolazioni colpite reagiscono in modo differente”. Questo è troppo. È da un anno che telegiornali come il tg1 fanno sistematica disinformazione e quotidiani come “Il Giornale” sfociano puntualmente nella diffamazione seminando stereotipi neorazzisti. Si può tollerare tutto questo? Fino a che punto? O è il momento di sollecitare interrogazioni parlamentari sulla legittimità di questa disinformazione ormai sfociata nel dileggio? Si può offendere sistematicamente una città gravemente ferita per difendere ciecamente l’operato di un Governo? È questo il livello di civiltà della Nazione?

Basta. Deve essere chiaro che, fuor di opinione, in Friuli - per danni al tessuto urbanistico assai meno gravi di quelli con cui deve ancora iniziare a fare i conti L’Aquila - è stato di fatto speso l’equivalente di circa venti miliardi di euro; soldi messi a disposizione attraverso modalità di accesso chiare, tramite finanziamenti quinquennali, dallo Stato alle aree terremotate, senza offensive spettacolarizzazioni della carità. A L’Aquila sono stati promessi vagamente meno della metà dei soldi avuti realmente dal Friuli. Questo per quanto riguarda la disponibilità di fondi.

Invece per quanto riguarda la governance, si ha questa differenza: mentre a L’Aquila si subisce da subito dopo il sisma un centralismo che non è esagerato definire dittatoriale, basato sull’imposizione di strutture commissariali esterne (anche ora che l’emergenza è finita e dovrebbe iniziare la ricostruzione il “commissario” viene da fuori delle aree colpite ed è uno “yesman” di Berlusconi), in Friuli fu concessa una concreta autonomia nel processo di ricostruzione. In merito ricordo che nel giugno del 2009, poco dopo il sisma, venne a L’Aquila per un convegno un sindaco friulano che fu protagonista della ricostruzione, e che ci ricordò solennemente il principio da loro usato: “questa è la nostra terra, e i primi a comandare dobbiamo essere noi” (Franceschino Barazzutti, sindaco di Cavazzo Carnico dal 1977 al 1995).

Perciò, per cortesia, che il Governo tratti L’Aquila come il Friuli: dateci i soldi per ricostruire (come diritto costituzionale astraibile da almeno sette articoli, e come valore storicamente sancito da una prassi di civiltà plurisecolare) e toglieteci i commissari esterni. Le decisioni per L’Aquila le deve prendere chi ci vive; certo ci gioverebbero consulenze di esperti da tutto il mondo, ma dobbiamo scegliere noi cosa è meglio per noi. Quindi che nessuno dica più che in Friuli “si sono rimboccate le maniche”, per misurare noi aquilani: se la vogliamo mettere sul provocatorio di questo genere di comparazioni ingiuntive penso sia più lecito dire che “in Friuli sono stati riempiti di soldi che hanno potuto spendere come volevano”. A L’Aquila molti temono che servirebbero il doppio dei soldi del Friuli, mentre ne sono stati promessi a chiacchiere meno della metà. Tutti sappiamo che sono tempi difficili, ma appunto per questo non si può restare indifferenti riguardo i troppi sospetti sul fatto che i soldi siano stati spesi male e che l’emergenza sia stata un pretesto per il profitto.




SEMPRE DI PIU’ IL RE E’ NUDO


I governi durano qualche anno, i poteri istituzionali si riciclano al massimo per qualche decennio, mentre le città attraversano la storia. Chi pensa che L’Aquila sia solo un ammasso di case pericolanti non capisce che le città non sono fatte solo da mura e tetti: le città sono fatte da idee. Chi oggi prende le misure politiche per L’Aquila sarà domani misurato dalla storia per quello che ha fatto, e potrebbe ritrovarsi con una maledizione addosso. C’è un briciolo di umanità in Tremonti, l’inarrivabile e avaro custode delle casse dello Stato? Come stanno Bertolaso e Berlusconi dopo aver millantato miracoli sulle disgrazie di migliaia di persone? Sempre più paiono dei reietti, dei latitanti di Stato, che non possono più stare in mezzo alla gente vera, ma devono difendersi con la distanza, la finzione di simulate passerelle mediatiche.

Quanto è durata l’onda populista di consenso estorta dall’emergenza aquilana attraverso la finzione sensazionalistica del miracolo? Si chiedono queste persone come saranno ricordate dai posteri? e che eredità morale lasceranno alla loro discendenza? Le finzioni durano finché alla massa fa comodo credere ad esse; ma a chi fa comodo continuare a credere a questi nostri attuali sovrani taumaturghi? La gente che spingeva sotto il caldo estivo di un assolato pomeriggio romano era più reale del re, e l’Italia sempre di più guardando L’Aquila si vede allo specchio. La vergogna delle manganellate su cittadini terremotati ha fatto il giro del mondo, e la diagnosi di disperazione - che, con dubbia benevolenza, ci ha attribuito qualche parlamentare anche dell’opposizione - non può essere il pretesto per edulcorare, ma seguitare paternalisticamente a nascondere, certe ragioni.

Antonello Ciccozzi

L’Aquila, 10 luglio 2010